Cassandra Crossing/ “Dove sono i tuoi dati?” è una domanda a cui ormai molti non sanno più rispondere. Ma sapere dove sono e riuscire ad accedervi sono due cose molto diverse, come la nostra anziana protagonista ha scoperto.
Cassandra ha già più volte esternato che mantenere il controllo dei propri dati (contatti, foto, email, credenziali bancarie, programmi sorgenti e via dicendo) è una cosa importante, e che dire «Sono nel cloud» è solo un modo elegante per dire che il loro controllo ce l’ha qualcun altro.
Ma se perdere i propri dati perché si è rotto l’hard disk o perché si è dimenticata la password del wallet Bitcoin è cosa facilmente comprensibile e alla quale ci si può persino rassegnare, perderli perché chi li ha si rifiuta di riconsegnarteli sembra impossibile; soprattutto quando una grandissima azienda dall’aria sempre amichevole diventa più impenetrabile di un muro (adesso mettete The Wall dei Pink Floyd come sottofondo, per favore).
Basta solo un passo in più o un passo falso nelle procedure di recupero delle credenziali e dell’accesso ai dati che Google e gli altri GAFAM mettono a disposizione dei propri “utenti” e ci si scopre immersi nell’oscurità e senza nessun posto dove andare.
C’è un interessante post di Slashdot su un caso esemplare e commovente di perdita dei dati, accaduto a una vecchietta novantenne, ancora perfettamente in grado di usare il suo iPad e di usare il suo account Google, creato un decennio fa.
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La nostra protagonista ha infatti usato per un decennio lo stesso iPad e la password dell’account Google memorizzata. Poi un giorno l’anziano hardware ha lasciato l’anziana signora, insieme alla sua password, mai usata per un decennio, e quindi ormai sconosciuta.
La procedura di recovery di Google è piena di opportunità per recuperare le credenziali, che però non erano previste quando l’account fu creato, né tanto meno erano obbligatorie. Il risultato è che non c’è possibilità di utilizzare un numero di cellulare o un indirizzo email di recupero, che comunque, dopo 10 anni, sarebbero probabilmente stati a loro volta dimenticati o dismessi.
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A questo punto la vecchietta fa l’unica cosa possibile e richiede l’aiuto di un esperto, il quale contatta abilmente Google in tutti i modi possibili, senza ottenere una risposta che permettesse di accedere nuovamente all’account. I particolari li trovate nel blog del consulente, ma il succo della questione è che, semplicemente, aziende di questa dimensione non possono trattare questi “casi limite”, che farebbero piangere persino Barbablù, e quindi altrettanto semplicemente, scientificamente e legalmente scelgono di ignorarli.
I dati ci sono, sono lì, almeno fino quando la corsa al dividendo non farà anche cancellare gli account inattivi, ma sempre la stessa corsa al dividendo fa sì che siano inaccessibili come se fossero stati inghiottiti da un buco nero. E invece non è stato un buco nero ad inghiottirli, ma sono semplicemente scomparsi nel cloud. Non sono stati bruciati. Sono ancora lassù, ma sono divenuti irraggiungibili per i comuni mortali, anche per la comune mortale che, ingenuamente, credeva di esserne proprietaria.
Come già detto altre volte, le multinazionali potranno avere un ufficio di relazioni con il pubblico e per la tutela della propria immagine, ma non hanno una coscienza su cui poter mettere una mano. La morale della favola è la solita: i vostri dati sono (anche) vostri se ne avete una copia. Altrimenti sono solo di Google che, come i colleghi GAFAM, è un padrone e come tale si comporta.
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