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28.02.2019 In Tecnologia

Chi ha incastrato il boss El Chapo? Un programma spia nello smartphone

Per incastrare Al Capone, l’FBI puntò sull’evasione fiscale e sulla violazione di alcune leggi sul proibizionismo. Sarebbe stato altrimenti difficile, nella Chicago del 1930, dove tutte le bocche erano cucite, cogliere sul fatto il boss dei boss. Oggi, in un’era dove la tecnologia è al centro di ogni nostra comunicazione, a incastrare Joaquín “El Chapo” Guzmán (boss messicano del narcotraffico) è stato un software: in particolare sembra che a favorirne l’arresto, due anni fa, sia stato il programma di monitoraggio chiamato FlexiSpy.

Si tratta di un programmino che può leggere messaggi di testo e registri delle chiamate, rubare le password salvate sugli smartphone e attivare da remoto il microfono, per ascoltare cosa succede nei dintorni del telefono. Ufficialmente viene venduto come sistema per consentire ai genitori di controllare i figli minori e ai responsabili di aziende di “monitorare” i propri dipendenti; curiosamente fu proprio El Chapo a farlo introdurre negli smartphone Blackberry dei suoi sgherri…

Parla El Chapo. In totale, l’FBI ha intercettato più di 200 chiamate del boss messicano e altre centinaia di suoi luogotenenti e familiari. Christian Rodriguez, un uomo molto vicino al boss, poi diventato informatore dell’FBI, ha testimoniato in tribunale che, per volere di El Chapo, ha personalmente installato lo spyware in 50 telefoni Blackberry, perché Guzman potesse usarli per spiare la sua cerchia ristretta, amanti incluse. In una telefonata si sente addirittura El Chapo che chiede a un suo luogotenente come procede la corruzione di un ufficiale di polizia messicana. “Sta ricevendo il pagamento mensile?“. L’affiliato conferma che il cartello sta inviando bustarelle regolari, poi passa il telefono all’ufficiale, che conferma il pagamento e si impegna a mantenere la sua fedeltà.

Fu sempre Rodriguez a giocare un altro tiro a El Chapo: nel maggio 2010, infatti,  ha simulato un guasto sulla rete privata che il boss aveva messo a punto per comunicare in modo riservato con i suoi interlocutori. L’idea, orchestrata per costringere Guzmán e i suoi collaboratori a usare telefoni cellulari sottocontrollo, consentì all’FBI di ascoltare il boss negoziare un accordo di cocaina da sei tonnellate con membri del gruppo di guerriglia delle FARC (le forze armate rivoluzionarie colombiane).

In seguito Rodriguez ha anche spostato i server per la sua rete dal Canada, dove le leggi sulla crittografia impedivano all’FBI di fare le sue intercettazioni, ai Paesi Bassi, dove gli inquirenti hanno lavorato con il team olandese High Tech Crime per 18 mesi per violare la rete di El Chapo e ottenere l’accesso alle centinaia di chiamate che costituiscono il fondamento per una buona parte delle accuse che gli sono mosse.

Latitanti e smartphone. Quella di El Chapo però non è l’unica caccia al latitante basata su strumenti hi-tech. Bin Laden, che se ne intendeva, da quanto si evince dalle lettere trovate nel compound pakistano dove fu trovato dagli americani, ne era ossessionato: aveva timore di essere intercettato, al punto da vietare contatti e corrispondenza via mail privilegiando l’utilizzo dei corrieri e gli incontri personali.

Ed è stata un’intercettazione del 2016, effettuata attraverso una microspia, ad attirare recentemente le attenzioni della procura distrettuale antimafia di Palermo e a far ipotizzare la presenza del boss Matteo Messina Denaro a quel tempo nei pressi di Trapani. Ma il caso più recente è quello di Cesare Battisti, l’ex terrorista italiano arrestato nel dicembre 2018 in Bolivia. Secondo alcune fonti, infatti, a tradire Battisti durante la sua ultima fuga sarebbe stato il sistema di localizzazione e di monitoraggio di utenze a lui vicine e una serie di intercettazioni. Sembra che si collegasse abitualemente con i social network per comunicare con amici e parenti.

Hacker di stato. I malware per smartphone restano comunque uno dei metodi preferiti dagli inquirenti per catturare i latitanti. Ne esistono alcuni di alto profilo estremamente difficili da identificare e bloccare: queste app invisibili possono rubare i messaggi WhatsApp e ottenere prendere il controllo dei dispositivi al punto da ottenere l’elenco delle chiamate e degli sms, le informazioni sulla posizione, il calendario e i dati archiviati nella memoria. L’ultimo virus con queste caratteristiche è stato scoperto sul web nel 2018 da Kasperski Lab: i tecnici che lo hanno “trovato” sono quasi sicuri che non fosse frutto del lavoro di un hacker senza scrupoli, ma il prodotto di una famosa azienda italiana di offensive security che collabora con le attività di indagine da parte delle forze di polizia e dell’autorità giudiziaria.

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