Capire la scuola è un problema. Parola di alcuni libri e romanzi contemporanei dal sapore back to school, diventati esempi del genere “scolastico” in Italia e negli Stati Uniti
(foto: MARTIN BUREAU/AFP/Getty Images)
Settembre non è solo tempo di vendemmia, ma di altri tipi di raccolto: chi prima chi dopo, anche in Italia bambini e ragazzi (e relativi insegnanti) ritornano faticosamente a grappoli nelle file dei banchi, totalmente diseducati, dopo tre mesi di limbo chiamato estate italiana. La scuola: un topos di un certo tipo di letteratura – specie nostrana, dove per anni la narrativa che si è concentrata su banchi e ricreazioni, professori affannati e alunni impertinenti, ha avuto un buon seguito sullo scaffale. La scuola è in Italia da sempre crocevia di problematiche irrisolte: zona di contatto tra margini ed emarginati, scenario di scontro tra strati sociali, luogo di sfida e di delusione di un’identità nazionale, fin dai tempi di Pinocchio, che fa della scuola un luogo prototipico da favola macabra e di prigionia (sebbene irrinunciabile, per le idee pedagogiche di Collodi stesso).
La narrativa italiana specie di primo Novecento è ricca di variazioni dalla scuola collodiana come centro di conflitto: uno per tutti va ricordato un racconto perfetto e senza tempo di Federigo Tozzi, Un’osteria, che descrive benissimo l’Italia post-Unità ancora da educare attraverso l’esperienza di supplizio e oppressione di una insegnante locale, che si trova suo malgrado a diventare oggetto di desiderio della comunità in cui opera, rappresentata dagli avventori di una piccola, asfittica e fumosa osteria nei pressi di Faenza.
L’oggi incensato romanziere tout court Domenico Starnone si è fatto le ossa proprio come narratore del – chiamiamolo senza offendere nessuno – sottogenere scolastico, nei suoi primi romanzi, parlando di storie di scuole più o meno disastrate fin dagli esordi con i racconti di Ex cattedra (Feltrinelli). Così come Marco Lodoli (si veda il suo Il rosso e il blu, Einaudi) milita da tempo come uno dei rappresentanti di punta di quella categoria di scrittori-insegnanti dediti a difendere il valore della scuola pubblica, rispetto alle sue numerose storture e incapacità d’ascolto. Tra gli altri, non si può dimenticare Eraldo Affinati, narratore ma anche docente della scuola da lui fondata, Penny Wirton, dedicata all’insegnamento dell’italiano gratuito a studenti migranti. Affinati per Mondadori parla di studenti e scuole particolari a più riprese: in La città dei ragazzi, che racconta l’esperienza di educatore di alcuni alunni marocchini e del viaggio per accompagnarli a casa, a Elogio del ripetente, finanche a due anni fa con L’uomo del futuro. Sulle strade di don Lorenzo Milani (Mondadori, 2016), sull’icona della Scuola di Barbiana, santino ufficiale di ogni educatore dalla mente aperta che si rispetti.
Sul lato forse più mainstream o pop troviamo Paola Mastrocola e anche un Alessandro D’Avenia – sul sito di quest’ultimo, Prof2.0, campeggia il lemma “Qualche libro, tanti alunni”. Di recente, sul genere si sono cimentati da Silvia dai Pra’ (Quelli che però è lo stesso, Laterza) a Christian Raimo (Tranquillo prof, la richiamo io, Einaudi). Una scrittrice come Giusi Marchetta (suo l’esordio L’iguana non vuole, Rizzoli, proprio ambientato a scuola nella sua Torino) ha sviluppato in modo più letterario l’interesse per la materia scolastica e continua a più riprese ad affrontare il problema educativo anche in Lettori si cresce (Einaudi.) Per minimum fax è uscito poi quest’anno un diario postumo dell’insegnante, Registro di classe: lo firma Sandro Onofri, scrittore che dell’insegnamento aveva fatto la propria missione di scandagli dei confini più conflittuali della società. L’elenco sarebbe assai vasto, perché vasta è la tentazione degli scrittori d’oggi di proporsi, pare, come educatori.
Da segnalare è anche, appena uscito per Effequ, un dizionario programmatico e agile delle imprescindibili parole per capire la scuola e i ragazzi di oggi, La scuola è politica. Abbecedario laico, popolare e democratico, a cura di Simone Giusti, e scritto assieme a Federico Batini, la stessa Marchetta e Vanessa Roghi, in cui in mezzo alle esigenze di sperimentare nuovi metodi che stimolino e assecondino ad un tempo gli interessi sempre più indecifrabili degli studenti, in nuova “scuola dotata di senso”, si legge anche della necessità di preservare una certa “noia” degli scolari – sapranno di cosa si tratta? – per non rischiare di produrre un’educazione iperprotettiva e iperattiva insieme. Polemico e attualissimo in questo senso è anche il libro recente di Claudio Giunta, E se non fosse la buona battaglia? (Il mulino, 2017). Sottotitolo: “Sul futuro dell’istruzione umanistica” – ovvero di come l’autore metta in dubbio che le nostre battaglie umanistiche abbiano ancora un senso in una società che pare seguire altri bisogni.
È da poco uscito invece in inglese – facendo non poco parlare di sé in lunghi articoli su magazine internazionali di punta come il New Yorker – La scuola cattolica di Edoardo Albinati. C’è da chiedersi se l’argomento del romanzo corroborerà o meno l’idea del lettore straniero di un’Italia arretrata anche dietro le mura scolastiche (in questo c’è già Elena Ferrante a contribuire a un quadro romantico e spietato a un tempo), controllate questa volta per giunta direttamente dalla Chiesa – sebbene nel romanzo di Albinati si parli di un’élite privilegiata che frequenta una scuola privata romana, in cui l’educazione cattolica pare solo giustificazione e alimento di un disagio che si legherà al terribile delitto del Circeo. Com’è che non sono diventato anche io un assassino?, pare la domanda di Albinati, alla fine della lettura. La scuola dunque è vista anche come nutrimento imprevedibile di destini separati, e talvolta efferati.
Pare questa la condizione scolastica raccontata dall’autrice di culto di questi anni, Sally Rooney, in Persone normali, un romanzo che strizza l’occhio sapientemente a Jane Austen ma anche alla commedia cinematografica di stampo americano (quella della secchiona che ha una relazione con il figo sportivo, o viceversa, ci siamo capiti), e che ci offre l’evoluzione da studenti a persone dei due protagonisti, Connell e Marianne, provenienti da famiglie totalmente diverse, l’una disagiata e l’altra agiata e disfunzionale, e raccontanti attraverso vari gradi scolastici, dalla scuoletta di un piccolo borgo rurale irlandese al prestigiosissimo Trinity College dove entrambi vanno a studiare.
Il genere scolastico si esprime in area anglo-americana negli ultimi anni forse più in ambito di serie televisive, come con la terribile vicenda dell’interessante serie 13 Reasons Why, in cui lo stesso setting, la Liberty High School è complice, tra bullismo e violenze sessuali, tanto quanto gli altri personaggi nel suicidio della studentessa Hannah. Sebbene due autori americani come Jeffrey Eugenides e Donna Tartt abbiamo esplorato il mondo degli studenti più grandi, offrendo due ottime (e cosiddette) campus novel, sottogenere che in America ha altri autori tra i ranghi – come non menzionare il Coetzee di Disgrace o il Roth de La macchia umana? Eugenides ne La trama del matrimonio dimostra come tutto nell’università americana influenzi poi successivamente il destino delle persone in società, con un teorema-menage a trois tra i protagonisti della storia alle prese con scelte di vita difficili dopo il cosiddetto Graduation Day. Tartt, con Dio di illusioni, racconta del plagio e dell’infatuazione provocata da un insegnante di greco in alcuni studenti viziati di un piccolo college del Vermont, in un romanzo dove la degenerazione e il crimine la fanno da padrone.
Il romanzo della e sulla scuola ha dunque potenzialità infinite, tra proclami pedagogici (specie in Italia) e analisi dei vizi di una società intera (specie in area anglosassone), che spesso non danno adito tuttavia a grandi innovazioni letterarie. Un modo sperimentale e differente di approcciare la scuola è però forse quello proposto dall’area francese (patria di un autore che ha battuto il tema scolastico come Pennac) con un film-romanzo: nel 2008 François Bégaudeau, insegnante di francese in una scuola media superiore di Parigi, ha realizzato da protagonista un particolare docu-fiction sulla propria classe problematica, diretto o meglio seguito dalle telecamere del regista Laurent Cantet. Il titolo è La classe (Entre les murs, in francese) e si è aggiudicato la Palma D’oro al Festival di Cannes.
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