Per capire lo sguardo di orrore dipinto sul volto dell’interprete alla Casa Bianca abbiamo chiesto a Bérengère Viennot, traduttrice e autrice del saggio La lingua di Trump, che cosa significa avere a che fare con un uso così misero e violento delle parole
L’immagine che ha fatto il giro del mondo: Elisabetta Savigni Ullmann e Donald Trump
Cacciatore di leoni. Corriere dei narcos colombiani. Stuntman. Sherpa sull’Himalaya: questi sono noti a tutti. Ma, almeno da qualche anno, alla lista dei lavori più pericolosi del mondo si è aggiunta una nuova voce: tradurre quel che dice Donald Trump. Una considerazione tra il serissimo e il faceto, a giudicare dalla già celebre espressione di vivo terrore dipinta sul volto di Elisabetta Savigni Ullmann, l’interprete italiana in visita a Washington col presidente della Repubblica Sergio Mattarella, mentre quest’ultimo era impegnato nella tradizionale conferenza stampa congiunta col suo omologo statunitense. La specialista in interpretariato ha regalato un elegante, silenzioso siparietto a più riprese durante l’ora scarsa di incontro con la stampa: mentre Trump parlava di Turchia, Russia e Siria senza risparmiarsi gustosissime battute sui curdi, ha improvvisamente alzato la testa dai suoi appunti per fissarlo con uno sguardo tra l’esterrefatto e incredulo.
Qualcuno, sugli inossidabili social media, l’ha già definita il simbolo di “tutti i sani di mente rimasti nel globo”, un milite ignoto del buonsenso, o forse l’unica reazione possibile davanti alla barbarie: e non pare nemmeno un’iperbole. Per capire meglio cosa c’era dietro quegli occhi sbarrati abbiamo chiesto aiuto alla traduttrice francese Bérengère Viennot, il cui saggio appena uscito per Einaudi, La lingua di Trump, parla esattamente della fatica erculea di rendere in un’altra lingua quel linguaggio “volgare e confuso, infarcito di errori sintattici e di frasi che non hanno né capo né coda, di sarcasmi e invettive – segni di un rapporto fuorviante con la realtà e la cultura”. Viennot fa la traduttrice editoriale per giornali e riviste, e nessuno meglio di lei poteva spiegarci l’orrore del trumpiano (inteso, ovviamente come la lingua di Trump).
Bérengère, oggi il mondo intero si è immedesimato nello sguardo sul volto dell’interprete seduta dietro a Donald Trump durante il suo incontro con Sergio Mattarella. Cosa significa davvero? Era soltanto inorridita da ciò che il presidente degli Stati Uniti stava dicendo – cioè, tra le altre cose, che i curdi “hanno moltissima sabbia con cui giocare” – o magari non era messa in condizione di fare il suo lavoro al meglio perché lui stava, come dire, parlando in modo assurdo?
“Credo che lei stessa sia l’unica che può rispondere a questa domanda… ma quel che posso dire è che, se mi fossi trovata al suo posto, anche io sarei stata colta di sorpresa dalle uscite sulla «sabbia», per quanto sia molto consapevole del fatto che Donald Trump è in grado di dire cose stupefacenti. È ovviamente un’interprete professionista e si era preparata per l’incontro, il che significa che sa chi è Trump, di cosa è capace e come parla. Ma è ovvio che, per quanto tu possa essere preparato, il presidente degli Stati Uniti è sempre in grado di sorprendere il pubblico col suo trumpismo. In questo caso – come in molti altri – Trump affrontava un argomento che non padroneggia granché bene, e siccome non ha mai imparato i codici del linguaggio politico, non sa che strada prendere. Probabilmente poteva svolgere il suo lavoro perfettamente, ma da essere umano era giustamente sbalordita”.
Il tuo libro La lingua di Trump è appena uscito in Italia, ed è dedicato proprio a come Trump ha cambiato le regole della comunicazione politica, facendo saltare il banco. Come ha fatto?
“Trump è molto diverso dai suoi predecessori, su diversi piani. Non viene dal mondo della politica, non era mai stato eletto in precedenza. Proviene dal mondo del business, e poi dalla tv dei reality. Quando è diventato presidente degli Stati Uniti – il che dev’essere un evento abbastanza traumatizzante, anche per chi è enormemente preparato – non si è adattato di conseguenza. Ha continuato a essere chi era sempre stato: un magnate bramoso di fare soldi e un personaggio da reality show che desidera che le persone lo guardino e applaudano. Non avrebbe mai permesso allo staff della Casa Bianca di prepararlo per il suo compito (e parte di questa preparazione – di cui avrebbe disperatamente necessitato – era proprio imparare il linguaggio della politica).
I politici vogliono che le persone li apprezzino e votino per loro; da persone normali si adattano ai loro ambienti e alle persone con cui si interfacciano. Trump no. Parla a tutti nella stessa maniera, a prescindere da chi si trovi davanti. L’hai sentito rivolgersi a una bambina di 7 anni a Natale, dicendogli che alla sua età ormai era “un po’ troppo grande” per credere a Babbo Natale? Hai dato un’occhiata alla lettera che ha appena scritto al presidente turco Erdogan, che sembrava scritta da un dodicenne al suo compagno di scuola? Ricordi cos’ha detto alla First Lady francese due anni fa?
Donald Trump parla senza applicare alcun tipo di filtro e senza nemmeno considerare a chi si sta rivolgendo, ed essendo un presidente è una cosa parecchio inusuale: lo è nella comunicazione politica, ma se ci pensate non farebbe questa gran figura nemmeno nel mondo normale…”
Quindi, tradurre Trump è un lavoro che ti risulta molto più difficile della media, come traduttrice? E per quale motivo?
“All’inizio era terribile. Ero abituata a tradurre e leggere discorsi politici regolati da codici precisi: parole scelte con attenzione e punti chiave, con un messaggio che il parlante desidera trasmettere. Tradurre non è una questione che riguarda le parole, e non è nemmeno questione di comprendere una lingua straniera (il che è una condizione ovvia): è soprattutto restituire un messaggio, una sensazione, un contesto a lettori la cui cultura è diversa da quella di coloro a cui era destinato il messaggio in origine.
Facciamo un esempio: se dico formaggio a te, da italiano, verranno in mente gorgonzola, ricotta, mozzarella (scusa per il cliché!). Io, da donna francese, penserò al maleodorante camembert (yum), al formaggio di capra, al comté… e a un americano verrà in mente una cosa di plastica inserita in un hamburger! Eppure cheese, formaggio e fromage sono parole completamente intercambiabili: quindi come fai a tradurre tutto ciò che la parola formaggio significa per te, a un americano che non ha la stessa prospettiva culturale? Dovrai per forza di cose tradurre un contesto, un momento, un feeling, eccetera. Questo è il nocciolo di tradurre. Devi capire ciò che stai traducendo, ma devi anche sapere da dove proviene il messaggio. Motivo per cui tradurre il mondo di Donald Trump era tutta questione di tradurre il suo messaggio, il suo contesto. E se la maggior parte delle volte le sue parole sono semplici e immediate da comprendere (great, good, bad, terrible, tough, eccetera), messe tutte insieme non costituiscono un messaggio semplice da rendere.
Perché a Trump mancano le abilità fondamentali di un presidente (come una conoscenza generale della storia e della politica internazionale), spesso non sa nemmeno lui dove sta andando a parare (e molte volte finisce a parlare di se stesso e di quanto è un uomo di successo, lasciando da parte l’argomento di discussione). Come fai a tradurre un messaggio inesistente? E cosa fare con la forma di questo messaggio: lo traduciamo così com’è, e mostriamo al mondo quanto Trump non è in grado di parlare di politica, oppure proviamo a farlo suonare un po’ più politico?”.
Trump pronuncia (e twitta) con regolarità parole d’odio e intrise di violenza: come pensi che influenzino non solo chi lo sostiene, ma anche lo stesso sistema democratico che presiede?
“Ho sempre pensato che avrebbero finito per farlo, anche prima che Trump venisse eletto. Era molto chiaro dall’inizio. Nelle nostre democrazie, un presidente è una specie di super ego: gli si chiede di essere un esempio da seguire, una sorta di punto di riferimento. Le persone violente e razziste negli Stati Uniti ci sono sempre state, non è nulla di nuovo: è un paese costruito sulla violenza, prima contro i nativi americani, poi contro gli africani ridotti in schiavitù, la comunità nera, i giapponesi durante la guerra, le donne, gli ispanici, eccetera. Questa violenza esiste ancora ma è contenuta e, in una certa misura, prevenuta dallo stato di diritto. Ovviamente è lontano dalla perfezione, ma almeno ufficialmente la società americana dichiara di tendere verso l’uguaglianza e la fine della violenza istituzionalizzata.
A giugno del 2015, quando una sparatoria in una chiesa uccise 8 fedeli e il loro prete, il presidente Obama si è mostrato addolorato in pubblico e ha cantato l’inno cristiano Amazing Grace. Ad agosto del 2017 a Charlottesville, quando un suprematista bianco ha ucciso una giovane donna, il presidente Trump ha dichiarato che c’erano “brave persone da ambo le parti”. Credo che questo sia un momento fondamentale della sua presidenza, in cui la violenza delle sue parole ha fatto da eco alla violenza che ribolle in alcune parti d’America.
Quindi cosa dovrebbero pensare i suprematisti e i razzisti ordinari? Se sentono che l’uomo al posto di comando più alto della nazione approva ciò che pensano e ciò che fanno, perché dovrebbero trattenersi dall’essere violenti, a parole e/o coi fatti?
Il problema principale di questa violenza trumpiana è che rimarrà lì fin molto dopo la fine della presidenza Trump. Enormi masse di persone hanno votato per lui, credono ancora in lui e lo supporteranno. Questa gente non scomparirà semplicemente quando Trump lascerà lo Studio Ovale. Ora sentono di avere una scelta. E anche loro sono il volto della democrazia americana. Almeno ora sappiamo chi è Trump, e come si comporta (pur in modo imprevedibile). Ciò che si lascerà dietro mi spaventa anche di più”.
Lo scorso febbraio un op-ed del Washington Post si chiedeva: “Will the media ever figure out how to cover Trump?”, ovvero: i media riusciranno mai a capire come coprire giornalisticamente Trump? Ti giro la domanda: la comunità di esperti linguistici è riuscita a venire a patti con The Donald?
“Beh, credo di sì. È stato singolare doversi adattare all’inizio, ma ora penso che abbiamo capito come funziona, e soprattutto abbiamo capito che il modo in cui dice le cose è importante come il morale della favola – se non di più. Prima provavamo a tradurlo come tutti gli altri politici – quindi magari correggendo piccoli errori qua e là, per assicurarsi che la frase suonasse chiara – ma ci sbagliavamo di grosso, non avevamo capito. Donald Trump è gli errori che fa, e se provi ad appianare ciò che dice lasci fuori una parte del messaggio”.
Credi che Twitter in qualche modo abbia contribuito a formare il gusto di Trump per le ingiurie e i toni minacciosi?
“Twitter è la chiave del successo di Trump. L’ha aiutato a costruire una figura pubblica che molti apprezzano. E anche chi non lo fa – persone come me, che sono stufe marce di quest’uomo – si ritrova a seguirlo e a commentare i suoi tweet. E ah, per lui è una manna: brevi messaggi che scompaiono rapidamente sono l’ideale per un uomo che non ha una grande dimestichezza con le frasi lunghe o i pensieri connessi. E sì, su Twitter Trump è una specie di troll: insulta i suoi avversari (crooked Hillary, nervous Nancy, eccetera) e credo che percepisca che queste parole finiscono come in una specie di massa informe e senza fondo, e quindi non hanno davvero un’importanza specifica”.
In Italia si dice che siamo le parole che usiamo: quindi, Trump che cos’è? E noi, cosa siamo diventati rimanendo nella sua scia?
Credo che Trump sia un’allegoria vivente del mondo che abbiamo costruito, un mondo di cui ci siamo rifiutati di vedere la violenza e volgarità per così a lungo e poi, tutto a un tratto, è esploso al di fuori di ogni controllo. Immagino che Trump sia tutto ciò che c’è di incivile in noi; la parte di noi che impariamo ad addomesticare in modo da vivere insieme in una società quanto più pacifica possibile. È anche il prezzo da pagare per aver dato troppa importanza a ciò che abbiamo e ciò che vediamo, rispetto a quello che siamo. L’America ha il presidente che si merita? Possiamo essere noi a giudicare mentre qui, in Europa, stiamo permettendo che la stessa violenza politica colpisca le nostre società?
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