Il 22 novembre la Kanzlerin festeggia tre lustri alla guida della Germania: il mondo intorno è cambiato, ma lei è ancora lì. Anatomia della politica che non scrive letterine ai bambini per Natale, ma parla di indice di contagio
Angela Merkel è un mistero: non fa la spiritosa, non insulta gli avversari, non balla e soprattutto non twitta. Le ghiotte cronache delle sue vacanze sono che indossa la felpa dell’anno prima o che si porta gli sci da sola. Quando alla prima di un Wagner i giornalisti le chiedono “cosa indosserà stasera?”, lei risponde “un vestito”.
Angela Merkel è un mistero: non è decisa, non ha carisma, non infiamma l’elettorato. Quindici anni fa il suo primo flop alla guida della Cdu: vince senza vincere, ma riesce a diventare cancelliera. Nessun problema, è razionale, si adatta, impara dai propri errori. Fa grandi coalizioni coi liberali, coi socialdemocratici, persino coi verdi, e riesce a scansare alternative, populisti e estremisti (tutte e tre le cose pericolosamente rappresentate da Alternative für deutschland, il partito di estrama destra che ha dominato le cronache degli ultimi anni). All’inizio sembrava una meteora. All’ultima candidatura c’era solo da chiedersi chi volesse avere l’onore di perdere contro di lei.
Come si costruisce un impero
Se fosse una politica americana, di quelle di moda oggi, probabilmente ci annoierebbe con dettagli biografici identitari: sono cresciuta nella Ddr, ero l’unica ricercatrice donna nel mio corso, rappresento tutte le curvy che mi hanno votata e insieme a loro cambierò il mondo dalla copertina di una rivista; ah, seguitemi su Twitch: vi racconterò come faccio la pasta al forno e come sfiderò il Bundestag in quanto femminista intersezionale.
E invece Angela nasce a Amburgo ma il padre, un teologo protestante, si trasferisce contro ogni logica in un paesino sperduto a 90 chilometri da Berlino. Il traslocatore incaricato di spostare i mobili al di là della cortina di ferro dirà che soltanto due tipi di persone possono andare a vivere nella Germania dell’Est: “I comunisti e gli idioti”. Laurea in fisica, permessi per la Rfd, dal primo matrimonio tiene la lavatrice e il cognome del marito. Il 9 novembre 1989, mentre tutti festeggiano e varcavano il muro, lei non rinuncia alla sauna.
Cambia il mondo e cambia anche lei: da aspirante Marie Curie della Ddr a Caterina la Grande in Europa. Salta la fila varie volte perché c’è sempre un uomo che la considera sveglia, precisa e innocua, e le dà una mano: prima Wolfgang Schnur, poi Lothar de Maizière, fino a diventare una Kohls Mädchen, cioè – come direbbero i giovani su internet oggi – una bimba di Helmut Kohl (a lei quel nomignolo non piace, ma si adatta). Kohl le dà un ministero alle Politiche femminili e giovanili, scelta che anni più tardi spiegherà così: “È una donna, è dell’Est, per giunta è giovane, sono certo che non mi danneggerà”.
Niente di più sbagliato: quando alla fine del 1999 scoppia lo scandalo dei fondi illeciti intascati da Kohl per sovvenzionare la Cdu, una specie di Tangentopoli tedesca, Angela Merkel capisce che è la fine di un’era e scrive un editoriale sul Frankfurter Allgemeine Zeitung per liberarsi del suo mentore, per chiedere un nuovo inizio e per prendere il suo posto. Slealtà o ambizione? Forse entrambe, sempre calcolando al millimetro la propria posizione (la famiglia di Kohl non le perdonerà mai quell’esecuzione plateale).
Angela Merkel ha ammesso che dalla Ddr ha imparato a valorizzare il silenzio come strategia di sopravvivenza. Ecumenica, centrista, non si schiera mai, e se lo fa è pronta a cambiare idea: voleva essere liberista e poi è stata keynesiana, è nuclearista convinta ma dopo Fukushima spegne tutti i reattori tedeschi, fa piangere una ragazzina rifugiata palestinese dicendole che la Germania non può accogliere tutti gli immigrati e poi accoglie migliaia di siriani ripetendo “Wir Shaffen Das”, ce la possiamo fare.
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Angela Merkel è la dimostrazione che la crisi si può governare con leadership e organizzazione. Anche in pandemia non usa frasi come “potenza di fuoco” o “cabina di regia”, e non scrive letterine ai bambini per Natale: parla di indice di contagio. Quando i tedeschi la sentono si addormentano, quando la sento io penso che cederei un po’ d’intrattenimento politico per un po’ di competenza in più, o anche solo per il grigiume di un governo tecnico (gli italiani sognano Mario Draghi ma hanno ciò che si meritano, il Bagaglino). Insomma: i simpatici passano, la culona rimane.
È una che a 9 anni è rimasta per ore sul trampolino prima di lanciarsi (ovviamente c’è una parola tedesca per questa eccessiva prudenza: vorsichtigkeit, ma potrebbe essere semplicemente merkelismo). Quando però si lancia lo fa a bomba. È una rottamatrice che ha spostato al centro il suo partito (su politiche femminili, diritti civili omosessuali, immigrazione); ha mantenuto i conti a posto con la sua ossessione al risparmio (dovendo anche ringraziare la moneta unica); e ha preso in mano il destino dell’Europa. E forse questo è il punto debole (non suo, nostro).
Tanto amata in patria, la Mutti, quanto detestata in Europa. Angela di ferro, “culona inchiavabile” appunto, la Merkiavellica (copyright del sociologo Ulrich Beck) che si tiene in equilibrio tra europeisti e euroscettici, quella che ha umiliato Alexis Tsipras e ha imposto la Troika ai greci e l’austerity, o tirchieria tedesca, alle cicale mediterranee. Come scrive Michael Braun, Angela Merkel è una donna che dà il meglio di sé durante le crisi: del paese, del partito, dell’unione monetaria, dell’immigrazione e forse crisi pandemica. Prima ci pensa bene, poi salta. Ma il meglio lo dà quasi sempre in patria. Ed è forse questo il vero ostacolo per farla passare alla storia: vorremmo una mutter più europea, che riesca a risolvere l’ennesima crisi comune. Il problema è che abbiamo l’Imperatrice d’Europa, ma non abbiamo un’Europa.
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