In occasione dei 75 anni del “regista più importante di quest’epoca”, qui c’è la classifica definitiva delle sue opere, dalla meno bella alla più bella (perché nessuna è brutta)
Nessuno come David Lynch. Artista imprevedibile, istrionico, poliedrico, sempre fedele a se stesso, è stato in grado di destreggiarsi in modo unico dietro la macchina da presa, cambiando per sempre la narrazione del piccolo e grande schermo. Cresciuto girovagando per gli Stati Uniti, sovente in sobborghi malfamati e violenti, ha dato un nuovo significato all’horror d’autore, imbarcandosi in progetti di incredibile audacia, difficoltà e originalità.
Oggi, nel giorno del suo 75° compleanno, è giusto omaggiare quello che il Guardian ha definito il regista più importante del nostro tempo, con la classifica ragionata dei suoi film, dal meno bello al più bello.
10. Dune
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È il titolo più bistrattato di David Lynch, da cui ancora oggi il regista cerca il più possibile di allontanarsi. Eppure, al netto di diversi difetti, Dune resta un film di fantascienza molto diverso dai canoni hollywoodiani classici. Cupo, sanguinolento, con una componente horror molto marcata, raffinato e visivamente accattivante grazie alle scenografie di Anthony Masters e alla fotografia di Freddie Francis, riesce nell’impresa di essere fedele ai romanzi di Frank Herbert. Se è stato un fallimento, lo è stato in modo glorioso e coerente, grazie a Lynch che ha saputo creare un universo affascinante, e, dentro a esso, il viaggio tra sogno e realtà di un eroe e della sua vendetta. Pesantemente rimaneggiato dai produttori, Dune è stato un fiasco colossale al botteghino, ma a più di 30 anni di distanza si può dire che non meriti assolutamente le terribili critiche a cui è stato sottoposto, fosse anche per la capacità del regista di smarcarsi dalla concezione cinematografica mainstream.
9. Fuoco cammina con me
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Con Twin Peaks, David Lynch ha cambiato per sempre il concetto di serialità televisiva. Tuttavia, l’interruzione della produzione, ha lasciato molti punti interrogativi e domande senza riposta. Anche per questo c’era grande attesa per il prequel Fuoco cammina con me. Purtroppo, però, il film si è rivelato l’ennesima prova dell’imprevedibilità del regista, che più che dare risposte, ha creato ulteriori quesiti, e della sua distanza dalla narrativa classicamente intesa. Fuoco cammina con me è un viaggio claustrofobico in un mondo fatto di orrori e tristezza, di quella Garmonbozia che nutre gli spiriti della Loggia Nera. Il regista ha anche operato una totale cesura con il significato che la serie aveva per il pubblico, ha quasi ucciso la sua stessa creatura, tolto tutte le certezze che aveva dato nel passato.
8. Una storia vera
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Questo è uno dei più struggenti e intensi road movie di sempre. Incentrato sulla vera storia di Alvin Straight, contadino dell’Iowa che ha percorso su un piccolo trattore quasi 400 chilometri per andare a riconciliarsi con il fratello, è un grande tributo del regista al cinema americano del passato. Metafora di un viaggio verso la fine della propria esistenza ma anche di una riappacificazione con il mondo, il film si discosta dalla sperimentazione a cui sono abituati i fan di Lynch, ma non per questo perde di significato e di bellezza. Il ritmo, coerente con il lento ma cocciuto mezzo di trasporto del protagonista, permette di scoprire in modo inedito l’umanità dell’America profonda, rurale, sempre uguale e fedele a se stessa. Richard Farnsworth, con il suo volto rugoso e il cappello da cowboy, è un sopravvissuto di un’era che non c’è più, di un paese tagliato fuori dalla narrazione hollywoodiana dei nostri giorni. Non privo di riferimenti al mondo oscuro e inquietante della fantasia macabra di Lynch, Una storia vera esprime anche la volontà di una momentanea quiete da parte del regista.
7. Cuore selvaggio
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Quando è uscito nel 1990, la critica si è divisa su Cuore selvaggio, adattamento dell’omonimo romanzo di Baffy Gifford, con cui il regista ha deciso di omaggiare il noir e collegarsi a Il Mago di Oz, in un iter iperviolento, grottesco, attraversato da uno humor nero imprevedibile. Incentrato sulla fuga di Sailor Ripley (Nicolas Cage) e della sua amata Lula (Laura Dern) verso l’agognata California, il film è soprattutto un viaggio dentro l’erotismo, il desiderio e il sogno, senza però rinunciare allo stile particolare ed accattivante, nonché a un’espressività cromatica e sonora di enorme impatto. Connesso in modo profondo a Shakespeare, Cuore selvaggio è stato letteralmente stravolto dopo i test per il pubblico, a causa di alcune scene di violenza ritenute eccessive. Premiato (abbastanza a sorpresa) con la Palma d’Oro a Cannes 1990, negli anni è stato profondamente rivalutato. Lynch qui è stato in grado di stravolgere il genere road movie, collegarsi alla dimensione del sogno di Federico Fellini, all’Espressionismo, così come ai miti di un’America per lui contraddittoria. Il risultato è un caleidoscopio onirico di ipnotico fascino.
6. Inland Empire – L’impero della mente
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Il film più atipico, più ambizioso e più difficile, quello in cui David Lynch si è messo profondamente in gioco dura tre ore, è stato interamente realizzato in digitale e girato senza un vero copione, scena dopo scena. Inland Empire – L’impero della mente rappresenta un viaggio intimo, personale del regista dentro il concetto di oscurità e il mondo dell’illogicità. Forse nessun’altra sua opera è altrettanto disturbante, onirica, affascinante, mentre ci prende per mano e ci guida verso una destinazione ignota. C’è il trionfo di un’estetica aggrovigliata, c’è la narrazione sincopata e connessa all’inconscio, c’è la mancanza di logicità del mondo. Questo lavoro dalla natura inizialmente convenzionale distrugge all’improvviso ogni certezza che ci era stata data con la Niki Grace di Laura Dern. Un film su come si fa un film? Piuttosto, una riflessione sul concetto moderno di interattività, di ibridazione tra i diversi media della narrativa, ma soprattutto sull’imprevedibilità e la follia sepolte dentro la mente umana.
5. Strade perdute
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Un altro grande omaggio al neo-noir, al crime, così come a quel mondo di disperazione che da sempre lo affascina. Con Strade perdute David Lynch, nel 1997, ci guida dentro il suo cinema in cui lo spazio e il tempo non rispondono ad alcuna struttura classica, connettendosi piuttosto al nastro di Möbius che azzera il racconto circolare. Si tratta di un film molto personale, totalmente legato alle fantasie più inconfessabili e violente, che ci parla della nostra mancanza di controllo e dell’inutilità di appellarsi alla ragione. Ritorna la strada oscura e senza fine, con il jazzista Bill Pullman che si trova chiuso in un labirinto in cui soggettività e oggettività si confondono. Lynch ci mostra l’incapacità tutta maschile di accettare le insicurezze, l’impotenza, la libertà di un mondo femminile che ha le forme sensuali e ammalianti di Patricia Arquette in versione sublime femme fatale. Sottovalutato, addirittura maltrattato in modo ingiusto dalla critica a suo tempo, Strade perdute è invece uno dei lavori più riusciti di sempre sulla dimensione irrazionale che domina la vita.
4. The Elephant Man
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Il film più amato di David Lynch è ancora oggi il migliore mai fatto sul concetto di mostruosità, intesa come regno dell’anima. John Merrick, affetto dalla sindrome di Proteo, diventa totem della crudeltà che l’uomo sa infliggere ai diversi; creatura fisicamente orribile, si rivela la più nobile e sensibile, i veri mostri sono “gli altri”, la superficiale società vittoriana di quegli anni, le strade, i vicoli di un mondo fatto di violenza e terrore. Lavoro nobilitato da un cast di primissimo livello, dietro il velo di un’opera sentimentale e struggente, The Elephant Man si concentra in realtà sulla paura, di se stessi e degli altri, unendo la dimensione horror a quella del melò, per donarci la trasformazione di una bestia in un uomo. Senza rinunciare alla dimensione onirica e visionaria, David Lynch usa il bianco e il nero per creare la compenetrazione tra ciò che è reale e ciò che non lo è, nel mostrarci una civiltà fatta di macchine, impietosa, barbara. L’immaginazione diventa qui via di fuga, roccaforte dell’anima per Merrick, con cui superare la realtà ed i limiti di un’esistenza disgraziata. Il Dottor Treves di Anthony Hopkins, il suo sguardo interiore che a poco a poco prende il sopravvento sulla materialità, diventa il simbolo dell’accettazione delle nostre debolezze, primo passo per perdonare noi stessi più che il freak che abbiamo di fronte.
3. Eraserhead – La mente che cancella
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Difficile trovare un esordio così potente nella storia del cinema. Uscito nel 1977, Eraserhead – La mente che cancella è il film di David Lynch più personale, più intimo; un viaggio dentro l’orrore, che è anche una disamina della precarietà esistenziale che ha vissuto in quel periodo. Opera dalla genesi tormentata e difficoltosa, è diventata il simbolo di sperimentazione e commistione artistica. Per la prima volta, il regista mescola sogno e realtà, distruggendo il concetto di focolare domestico, l’effigie stessa della mascolinità vincente. Tra ricchi e palesi riferimenti all’espressionismo, al surrealismo e alle opere pittoriche di Francis Bacon, Eraserhead – La mente che cancella, con il suo neonato deforme, il suo Henry Spencer perso nella fantasia e poi nel panico, segna il debutto di un nuovo modo di fare cinema e di raccontare le nostre fobie sociali ed esistenziali più nascoste.
2. Mulholland Drive
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Secondo molti il più grande film del XXI secolo. Parlare di Mulholland Drive significa raccontare un film capace di cambiare, evolversi, mutare in modo assolutamente imprevedibile, e tuttavia di riuscire sempre a catturare l’attenzione dello spettatore. Neo-noir con momenti di tensione quasi insostenibile, è in realtà un gigantesco enigma, un gioco di prestigio con cui David Lynch pare prima convertirsi alla normale struttura narrativa per poi toglierci ogni certezza. Diane (Naomi Watts, lanciata proprio da questo titolo) è la protagonista assoluto, più di quanto inizialmente sembri: tutto ciò che vediamo è una sua fantasia oppure una sua realtà, o, ancora, come lei crede sia la sua realtà. Gelosia, passione, desideri, fallimenti, il sogno dorato di una Hollywood che è popolata da mostri, i suoi mostri, di creature egoiste alla Rita di Laura Harring. Lynch ci offre, dunque, quella che è una condanna e insieme un romantico elogio del suo mondo, la Città degli Angeli, in bilico tra vero e falso, cinema e realtà, sogno e incubo; in cui lo humor più grottesco riesce ad armonizzarsi con l’orrore più inquietante, l’eros con la disperazione. Nessun altro film è riuscito a ricordarci come la settima arte viva di vita propria.
1. Velluto blu
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Al primo posto non può che esserci Velluto blu, neo-noir oscuro con cui il regista decostruisce il sogno americano, reinventa completamente la struttura del cinema classico e presenta i pilastri del suo credo professionale. Connettendosi alla dimensione allucinata di James Ellroy e partendo dalla canzone di Bobby Vinton, nel 1986 David Lynch è stato capace di creare una stupenda metafora della società e distruggere l’epica creata sul Magnifico Paese degli anni ’40 e ’80. Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan), con la sua indagine su quell’orecchio mozzato, regala in breve un viaggio dentro l’orrore sommerso, gli incubi dell’anima sotterranea e peccaminosa dietro la superficie dorata, mentre tutto attorno sorge un labirinto claustrofobico. E mentre vengono distrutti la retorica del machismo e del consumismo, la musica del compositore Angelo Badalamenti assedia la nostra emotività.
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