La vicenda mostra tutte le debolezze di riforme che mirano a salvaguardare i problemi di cassa dell’editoria e non a immaginare un futuro di sistema per l’informazione
Capita raramente di dover dare ragione a Facebook, ma il litigio che in questi giorni ha opposto il social network di Zuckerberg al governo australiano sembra essere uno di quei rarissimi casi. La lite che ha avuto risonanza globale si può banalmente semplificare così: se un governo decide di tassare le uova è libero di farlo, ma ugualmente sono libere le galline di smettere di produrre uova se a loro covare non conviene più. Questo è il punto: se a Facebook viene chiesto di pagare una sorta di tassa per la condivisione di news sulla propria piattaforma, può Facebook scegliere di porre fine a tale condivisione, oscurando i relativi contenuti che, peraltro, non gli generano ricavi significativi? In altre parole, seguendo l’esempio precedente, la gallina è libera o meno di deporre le uova, a costo di rimetterci?
Il litigio sorto tra Facebook ed il governo australiano è, ovviamente, un po’ più complicato. Il tema va oltre la libertà economica degli operatori (il pollame di cui sopra) e finisce con l’investire le regole dell’intero pollaio, pardon, del settore dei media nel suo complesso: come garantire la libertà e la correttezza dell’informazione nell’era di internet attraverso un adeguato sostentamento economico, e chi deve pagare.
L’informazione costa, i giornalisti devono essere formati e retribuiti, occorre fare investimenti, e gli editori sono vere e proprie fabbriche, i cui azionisti (raramente dei giornalisti) vogliono vedere dei dividendi. Il tema ci è stato raccontato (da giornali e televisioni, ovviamente) come la generosa lotta dei piccoli editori contro i giganti del web. Le semplificazioni a volte sono necessarie però, quando poi leggo (grazie ad Alan Soon su Splice) che Google, dopo aver investito risorse per il fact checking, ha ora concluso un accordo e finanzierà la News Corporation di Rupert Murdoch, che invece si è distinta nel mettere in dubbio il riscaldamento globale, allora mi viene qualche dubbio. Evidentemente la separazione tra buoni e cattivi è più complessa di come ce la raccontano.
Il caso australiano
L’Australia da tempo sta lavorando a una normativa per costringere i giganti del web, e specificatamente Facebook e Google, a ricompensare l’editoria per “i profitti derivanti dall’utilizzo dei contenuti giornalistici sulle loro piattaforme” (uso le virgolette perché il concetto in questione è uno storytelling, non il risultato di uno studio scientifico). L’anno scorso, a settembre, il governo australiano inviò a Facebook e Google un vero e proprio ultimatum: se i rispettivi utenti avessero continuato a “linkare” e condividere notizie, le due piattaforme avrebbero dovuto remunerare gli editori e, in mancanza di accordo, lo stesso governo avrebbe potuto attivare un arbitrato obbligatorio (con risultati che possiamo immaginare). Facebook aveva già fatto sapere che se la scelta fosse stata tra condivisione a pagamento, oppure nessuna condivisione, avrebbe optato per la seconda. Sembrava un bluff ma così non è stato. Governo e stampa australiana (la maggior parte della quale appartiene al gruppo di Murdoch) sono insorti gridando alla censura, anche perché in prima battuta Facebook ha oscurato più del dovuto (ma poi ha riconosciuto l’errore, con tante scuse). Tuttavia, alla fine sembra che un compromesso tra le parti sia in dirittura d’arrivo.
La riforma australiana del copyright costituisce una radicalizzazione di quella europea, attuata con la recente direttiva 2019/790, pur con qualche differenza: è meno pilatesca (perché, a differenza della direttiva europea, prevede un maggiore coinvolgimento pubblico) e più diretta (perché è stata pensata per far pagare Google e Facebook, mentre la riforma europea è formalmente indirizzata a tutto il mondo internet).
Il ruolo delle istituzioni
Se fosse solo una questione di soldi, probabilmente non saremmo qui a discuterne. Google e Facebook sono finanziariamente solidi e non fanno pena a nessuno. Dominano i rispettivi mercati internet ma hanno comunque interesse a stringere accordi commerciali con gli editori, per espandere il proprio ecosistema (e infatti già lo fanno, oltre che a distribuire denari nel settore editoriale in vari modi, basti pensare al Digital News Innovation Fund di Google). Per di più, la loro reputazione a livello globale è piuttosto bassa per le note ragioni (violazioni della privacy, comportamenti anticompetitivi ecc.) e, quindi, un bell’accordo con gli editori potrebbe persino giovare all’immagine. E invece, l’implementazione delle nuove normative copyright appare ovunque accidentata, nonché fortemente contestata da attivisti ed esperti di Internet, a cominciare da Vint Cerf e Tim Berners Lee che, dove essersi mostrati critici verso la direttiva europea 2019/790, hanno contestato anche la riforma australiana.
Il fatto è che di fronte a un problema molto serio come la crisi dell’editoria, che rischia di minare la solidità dei sistemi democratici, le istituzioni hanno abdicato al ruolo che loro tradizionalmente compete, e cioè quello di fornire ai problemi delle soluzioni efficaci e complete, assumendosi, se del caso, le proprie responsabilità. Al contrario, la soluzione generalmente adottata, in Australia come in Europa, è semplicemente quella di alterare l’equilibrio delle negoziazioni tra editori e piattaforme a favore dei primi. Una sorta di delega, quindi, in cui i delegati sono gli stessi editori i quali, senza ammettere colpe circa la loro incapacità nell’affrontare il processo di digitalizzazione dei media, raccontano di essere vittime di Google & Facebook, e che un risarcimento risolverebbe di colpo i problemi dell’informazione. Il tutto, ovviamente, in assenza di analisi economiche serie ed indipendenti e, soprattutto, senza analizzare le ragioni profonde della crisi dell’editoria tradizionale di fronte ad Internet.
Il meccanismo, fallato e fallace, delle riforme copyright
La subordinazione delle istituzioni allo storytelling dell’editoria tradizionale ha fatto sì che il tema sia stato affrontato, dalla Spagna alla Germania, passando per l’Unione europea ed arrivando in Australia, con la creazione di un meccanismo improprio: l’invenzione di uno pseudo-copyright che dovrebbe compensare gli editori per l’uso (cioè la condivisione tramite hyperlink) dei loro contenuti sulle piattaforme. Al di là della qualificazione giuridica di tale diritto, il meccanismo è più che discutibile perché le news dei grandi quotidiani non producono guadagni significativi per le piattaforme online che, quindi, hanno poco da risarcire agli editori. La condivisione dei contenuti su social e piattaforme dipende soprattutto da reazioni emozionali, affettive e personali, più che dal valore intrinseco dei contenuti: per cui una fake news oppure una foto di gattini hanno maggiori probabilità di diventare virali (e così provocare maggiori click utili per gli introiti pubblicitari) rispetto a un articolo sull’opera di Umberto Eco. In altre parole, i grandi ritorni pubblicitari di Google e Facebook su internet non derivano dall’utilizzo di contenuti giornalistici di pregio, ma dal beneficiare di un ecosistema del tutto nuovo, fondato sull’accumulo dei dati e sulle relazioni tra gli stessi, piuttosto che sul valore intrinseco di singole categorie di contenuti.
La relazione tra editori e piattaforme
Molte fonti indipendenti hanno dimostrato (soprattutto basandosi sugli effetti delle prime norme copyright in Spagna e Germania) che le piattaforme, piuttosto che rubare contenuti, aiutano la diffusione in Internet degli articoli giornalistici e portano traffico agli editori. Ne è riprova il fatto che di fronte all’opzione di essere estromessi dalle piattaforme, gli editori si oppongono in modo veemente. Il che è contraddittorio, perché se fosse vero che le piattaforme si arricchiscono in modo parassitario dei contenuti giornalistici, allora la migliore soluzione sarebbe proprio quella di far sparire tali contenuti da Google e Facebook. Ma ove questo scenario è stato attuato (Spagna) o solo minacciato (Germania, Australia) gli editori hanno invece chiesto di rimanere sulle piattaforme a qualsiasi costo, e così il loro storytelling è andato in tilt. In un mondo digitalizzato, essere assenti dalle piattaforme come Google e Facebook vuol dire solo perdere del traffico, altro che furti.
Perché le riforme copyright non sono efficaci
Più che la riforma del copyright, in questo settore sembra contare di più la politica, e così i risultati più sostanziali dovrebbero vederli gli editori più influenti a livello governativo: così, non mi sorprende l’accordo tra Google e la News Corporation di Murdoch (nonché quello annunciato con un altro gruppo di peso; Nine Entertainment), e non mi sorprenderebbe che Facebook annunciasse a breve accordi analoghi.
Ma per tutti gli altri editori non è detto che andrà così, perché in assenza di spalle forti occorrerà invece misurarsi con la contraddittorietà del meccanismo del pseudo-copyright: perché, come detto, le news dei quotidiani sulle piattaforme online non creano i ricavi pubblicitari che gli editori vagheggiano; perché il valore dell’editoria è stato bruciato dalla dematerializzazione in internet, ancor prima della condivisione degli articoli sulle piattaforme; perché occorrerebbe rimpiazzare le declinanti vendite cartacee con nuovi abbonamenti online, e quindi bisognerebbe chiedersi come mai i lettori siano tanto riluttanti a pagare (forse vi è uno scadimento dei contenuti giornalistici? Forse i giornali non sono obiettivi come sembrano? Forse non costituiscono un vero argine alla fake news, ma a volte persino le producono? Forse perché gli editori non sono del mestiere, a differenza dei giornalisti?); perché le varie riforme copyright premiano invece i contenuti in chiaro (free) e possibilmente d’effetto (gattini e fake news), piuttosto che il giornalismo di qualità; in ultima analisi, perché la crisi dell’editoria è più profonda di quello che si pensi, e deriva dall’incapacità di adeguarsi all’ambiente digitale, dove invece Facebook e Google giocano in casa.
La “piattaformizzazione” degli editori
Facebook troverà presto una soluzione in Australia e, come Google, firmerà qualche accordo con gli editori. La crisi australiana è solo un incidente di percorso, dovuta ad un governo locale un po’ sbilanciato. Google e Facebook hanno tutto l’interesse contrattualizzare gli editori, a farli entrare nel proprio ecosistema, a renderli dipendenti dai propri meccanismi tecnologici e finanziari, a trattarli come partner, anche se solo nominalmente. L’importante è che il valore degli editori venga massimizzato all’interno delle piattaforme, e non fuori di esse, con ciò incrementando il valore delle piattaforme stesse e rendendo più onerosa ogni potenziale via d’uscita. In un futuro non troppo lontano il passo ulteriore potrebbe essere l’acquisto diretto dell’editore, come già accaduto in tanti settori dove la piattaforma, dopo aver ospitato e facilitato gli operatori tradizionali, si è sostituita agli stessi (Amazon docet). I burocrati di Canberra, Bruxelles o di altre capitali europee sembrano inermi di fronte a questi possibili sviluppi, perché l’input politico che hanno ricevuto è stato quello di risolvere i problemi di cassa dell’editoria tradizionale, non quelli sistemici e di lungo periodo del settore dell’informazione. Così, in molti gioiscono quando apprendono di qualche accordo concluso grazie a qualche riforma copyright, ma senza coglierne le conseguenze ultime, come i topi che seguono il pifferaio magico fino al precipizio.
@InnoGenna
Leggi anche