Dagli stessi autori della longeva saga della perversione American Horror Story, questa raccolta di storie paurose è piacevole quanto dimenticabile.
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“Endless dull with no escape”. Così il personaggio di Ben Harmon definisce la propria esistenza da fantasma nella casa maledetta nella quale era ambientata la prima stagione di American Horror Story: Murder House. Lo ritroviamo in American Horror Stories, dall’8 settembre su Star all’interno di Disney+, nell’ultimo di tre (sui sette che compongono la stagione) episodi incentrati sui nuovi inquilini della dimora infestata di spiriti assassini, mentre esprime la sua incapacità di fuggire al tedio e al… perimetro dell’abitazione. Gli spettatori di questa spin-off antologico della celebre sagra della depravazione creata da Ryan Murphy e Brad Falchuk e composto di puntate a sé stanti sono destinati a patire la stessa apatia di Ben, a meno che non siano molto a digiuno di racconti del terrore o molto, molto, molto fifoni.
American Horror Stories ricalca la formula originale ma rendendola più verticale: non più una storia a stagione ma una a puntata. La brevità ben si presta a questo genere, anche se non basta comporre short story su mostri e delitti per garantire i brividi di terrore generati dalle parabole gotiche di Edgar Allan Poe: dei sette episodi dello spin-off i quattro indipendenti (Drive In, The Naughty List, BA’AL e Feral ) sono più riusciti del lungo trittico ambientato nella Murder House (Rubber(wo)Man Part 1 & 2 e Game Over). I quattro episodi indipendenti sono morality play in salsa horror, parabole violente e sanguinose in forma di drammi allegorici a sfondo didattico. Evocano, infatti classici del piccolo schermo come Ai confini della realtà (The Twilight Zone) e I racconti della cripta (Tales of the Crypt).
Drive In, in particolare, si rifà al mito del film maledetto, come il capitolo Cigarette Burns di Masters of Horror diretto da John Carpenter, incentrato, appunto, su una pellicola la cui visione conduce a un’incontrollabile furia omicida, e a sua volta ispirata alla storia vera del film Antrum. Drive In è incentrato su un gruppetto di liceali desiderosi di guardare la pellicola proibita: meno ispirato del contemporaneo Fear Street, è il tentativo di Murphy, Falchuk e dello sceneggiatore Manny Coto (Oltre i limiti) di cimentarsi con il teen horror. Prevedibile e senza grandi trovate, dei quattro è il meno riuscito.
Diventa sempre più raro imbattersi in maestri dell’horror con la capacità di generare idee nuove: il discorso si applica a Drive In come a The Naughty List (sui meschini protagonisti di un reality in aria di Black Mirror) BA’AL (su una Rosemary’s Baby consapevole) e Feral (su un specie subumana primitiva e assassina, come The Descent – Discesa nelle tenebre, La casa dei mostri di X-Files etc). Senza scatenare particolare entusiasmo o ricorrere a espedienti originali questo trittico è comunque piacevolmente perverso, macabro e con un’elementare critica sociale che insegna quanto nessun peccatore sia immune dalla punizione che lo aspetta. In particolare, la gustosa presenza di Danny Trejo in The Naughty List vale da sola la pena della visione: nei panni di un Babbo Natale vendicativo sembra il mercenario dei fumetti Lobo dopo aver rubato il costume a Santa Claus (nella storia in cui viene spedito dal Coniglietto di Natale a eliminarlo).
BA’AL è il racconto migliore: la figlia di Carrie Fisher, Billie Lourd – uno di tanti volti ricorrenti nel cast delle serie di Murphy – è mirabile nei panni di una donna ricca e ossessionata dal desiderio della maternità, tanto da essere anche disposta a stringere un patto col demonio. Il suo personaggio sull’orlo della pazzia offre uno sguardo su un orrore reale molto più spaventoso di quello soprannaturale, e un finale tanto soddisfacente si fa perdonare la mancanza di veri brividi.
A proposito di genitori eccellenti, il trittico dedicato a Murder House è costellato di figli d’arte ventenni, come le eredi dei cantanti Michael Jackson e Billy Ray Cyrus, Paris e Noah, fino a Kaia Gerber, rampolla (e clone) di Cindy Crawford. La mancanza di talento attoriale di Noah (molto più brava come cantante, lo dimostra con la canzone dell’ultimo episodio, Ghost) e quello quasi inesistente della seppur adorabile Paris sono ammortizzati dalla bravura della Gerber nei panni della ribelle Ruby e da quella di Sierra McCormick, 23nne interprete di Scarlett, protagonista dei tre episodi.
Prima i genitori di Scarlett, Michael (Matt Bomer) e Troy, poi la coppia formata da Connie e Dylan (tra l’altro, i veri nomi di battesimo di Connie Britton e Dylan McDermott, interpreti del coniugi Harmon di Murder House), si avvicendano come nuovi proprietari della casa stregata. Affascinata dalle deformazioni più violente e depravate dal sadomasochismo, Scarlett è una paria tra le coetanee, la vittima di uno scherzo crudele e la protagonista di una parabola di riscatto perversa e subdolamente immorale. Tramite lei scopriamo il destino delle vittime e dei carnefici della Murder House e quello della dimora stessa.
Nel complesso American Horror Stories non è molto più dell’ennesima antologia di genere senza guizzi di originalità e con pochi brividi cheap; superficialmente critica, persa nel fanservice (e nella fissazione di Murphy di circondarsi di figli di celebrità) e sempre più incline a indugiare nella depravazione per mascherare l’incapacità di instillare un sentimento genuino di paura, affoga nell’autocompiacimento e patisce di una minore disponibilità di budget rispetto alla serie madre. Sa regalare qualche momento divertente, ma è per lo più superflua.
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