Davvero la mamma di Photoshop adesso si arroga il diritto di regalare alla IA le creazioni degli utenti?
Ha sollevato un gran putiferio – e non poteva essere diversamente – l’ultima modifica apportata da Adobe ai termini di servizio (ToS – Terms of Service) delle applicazioni che compongono la Creative Cloud Suite.
I paragrafi incriminati stanno all’articolo 2.2 e recitano:
Adobe potrà accedere, visualizzare o ascoltare i Contenuti dell’Utente (definiti nell’articolo 4.1 (Contenuti) di seguito riportato) attraverso metodi sia automatizzati che manuali, ma solo in modo limitato e nei termini consentiti dalla legge. Ad esempio, per fornire i Servizi e il Software, Adobe potrebbe avere bisogno di accedere, visualizzare o ascoltare i Contenuti dell’Utente per (A) rispondere alle richieste di feedback o supporto, (B) rilevare, prevenire o altrimenti affrontare frodi e problemi di sicurezza, legali o di natura tecnica e (C) far rispettare i Termini, come ulteriormente stabilito nella Sezione 4.1 di seguito riportata. Al fine di migliorare i Servizi, il Software e l’esperienza utente Adobe si avvale di sistemi automatizzati che consentono di analizzare i Contenuti dell’Utente e i Font caricati dall’Utente Creative Cloud (definiti nell’articolo 3.10 (Font caricati dall’Utente Creative Cloud) riportato di seguito) usando tecniche come il machine learning.
L’attenzione degli utenti dei prodotti Adobe s’è immediatamente concentrata sulla parte che dà diritto all’azienda di «accedere, visualizzare o ascoltare i Contenuti dell’Utente attraverso metodi sia automatizzati che manuali» usando «tecniche come il machine learning».
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Le condizioni insomma non parlano esplicitamente di IA, ma è chiaro in quale direzione i pensieri degli utenti si siano immediatamente mossi: in base a quanto scritto Adobe avrebbe il diritto di usare i contenuti caricati nel cloud dagli utenti per addestrare i propri modelli e creare delle IA generative basate su di essi.
Non solo: a quanto pare non ci sono limitazioni all’accesso alle opere, a parte il fatto che esso può avvenire solo per le opere caricate sui server di Adobe e non per quelle conservate in locale dagli utenti.
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Pertanto, anche chi lavorasse su materiale confidenziale, magari coperto da accordi di non divulgazione stretti con i clienti, potrebbe vedere le proprie opere “rielaborate” da Adobe per i propri fini.
È pur vero che la Sezione 4.1 (presente da tempo nei Termini d’Uso) chiarisce un po’ meglio le intenzioni di Adobe, là dove recita:
Adobe non esamina tutti i Contenuti caricati sui Servizi e sul Software, ma può utilizzare le tecnologie, i fornitori o le procedure disponibili, inclusa la revisione manuale, per individuare determinate tipologie di contenuti illegali (ad esempio, materiale su abusi sessuali su minori) o altro materiale e comportamenti illeciti (ad esempio, modelli di attività indicanti spam o phishing, oppure parole chiave indicanti che sono stati pubblicati contenuti vietati ai minori al di fuori dell’area riservata agli adulti).
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Insomma, a parole l’azienda vuole semplicemente il potere di moderare i contenuti caricati agendo non semplicemente tramite operatori umani ma anche tramite algoritmi, al fine di eliminare ciò che è illegale.
Tuttavia l’ambiguità è presente e non possono bastare le semplici parole di rassicurazione di un gigante della tecnologia circa l’uso etico dei sistemi di controllo automatizzati a tranquillizzare gli utenti circa il destino delle opere del loro ingegno.
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