Per il Kazakistan, il 2022 si è aperto nel segno della violenza. Dopo la liberalizzazione del prezzo del GPL, che ha portato al suo raddoppio impattando su tutti i prezzi al consumo, nelle piazze kazake si sono riversate dure manifestazioni contro il carovita, le cui repressioni hanno provocato un centinaio di morti e migliaia di feriti.
Ma dietro alla crisi che ha messo a ferro e fuoco il Paese, considerato fino ad oggi emblema di stabilità in Medio-Oriente, non serpeggia solo una profonda ferita socio-economica inasprita da anni di governo autoritario e corrotto. Ad agire nelle retrovie, come un personaggio secondario solo in apparenza (il suo ruolo, in realtà, è da co-protagonista), ci sarebbe anche il re delle criptovalute: il Bitcoin.
Ma qual è il collegamento tra la celebre moneta virtuale e le proteste in Kazakistan? In questo articolo proviamo a fare chiarezza sulla questione.
KAZAKISTAN, MINIERA D’ORO PER LE CRIPTO
Un piccolo passo indietro esplicativo è più che necessario. Il Kazakistan è da qualche anno il secondo Paese al mondo per l’estrazione di bitcoin dopo gli Stati Uniti, responsabile del 18% di tutti i calcoli della sua fitta rete. L’assenza di regolamentazioni stringenti e il basso costo dell’energia ricavata da fonti non rinnovabili hanno spinto un grande numero di aziende attive nel settore (nel 2021 pare siano state 88mila) a migrare in Kazakistan, che nel giro di poco tempo si è trasformato nella “Terra promessa” delle cripto. Questo perché molti Paesi, in primis la Cina, hanno imposto veti rigidissimi in materia mettendo al bando il mining e rendendo illegali le transazioni in criptovalute. Non è un caso che buona parte delle “crypto-factory” trasferitesi in Kazakistan siano infatti cinesi.
Poiché l’attività di estrazione delle criptovalute, il mining appunto, comporta un enorme dispendio di elettricità, l’esodo delle “minatori” di criptovalute in Kazakistan ha fatto impennare la domanda di energia elettrica, che è schizzata al +8% nel giro di un anno andando ad affannare la rete di distribuzione del Paese. Nonostante le imposizioni fiscali introdotte successivamente per arginare il problema, i miner hanno continuato a operare imperterriti, anche in clandestinità. Questi eventi, oltre a scatenare frequenti blackout in tutto il Paese, hanno spinto al rialzo i costi degli idrocarburi ed esortato il Governo ad imporre ulteriori tassazioni, cementificando la causa delle rivolte dei giorni scorsi.
MINING, ENERGIVORO E NON SOSTENIBILE
Per comprendere a fondo le ragioni che portano il mining ad essere una delle attività più energivore al mondo – e ad impattare così tanto sui consumi elettrici dei Paesi – bisogna risalire al processo su cui si fonda. L’estrazione delle criptovalute necessita del lavoro congiunto di un grande numero di computer che elaborano incessantemente complessi algoritmi e operazioni di calcolo responsabili di larga parte del consumo di energia.
Il dispendio energetico del mining non termina di certo qui: i capannoni in cui si estraggono criptovalute sono affollati da numerosi ventilatori necessari al raffreddamento dei pc. Secondo uno studio dell’università di Cambridge datato agosto 2021 e riportato dal Corriere della Sera, l’universo dei bitcoin consumerebbe 121 terawattora all’anno, che corrispondono al fabbisogno energetico annuo della Polonia. Tutto questo, secondo i calcoli dell’International Energy Agency, comporta la produzione di 36 milioni di tonnellate di CO2.
2022: INIZIO ANNO IN ROSSO PER BITCOIN
Il 2022 non si è aperto in modo disastroso solo per il Kazakistan. Anche per Bitcoin e le criptovalute in generale, i primi giorni dell’anno sono stati marchiati dal segno meno. La più popolare delle valute virtuali ha toccato il valore di 39.816 dollari (il minimo storico da luglio 2021), in quello che è stato più lungo periodo di rosso dal 2018.
Tra le cause scatenanti di questa grave flessione, che ha portato al crollo della capitalizzazione di mercato di Bitcoin, avrebbero giocato un ruolo determinante proprio le sommosse kazake. Con lo scoppio delle proteste, inoltre, il Governo ha oscurato internet per alcuni giorni impedendo le operazioni di mining e l’aggiornamento della blockchain. Come conseguenza, l’hashrate di Bitcoin, ovvero la potenza di calcolo globale della sua rete, è calato del 14% scatenando il rallentamento delle transazioni e la difficoltà ad estrarne di nuovi. Questo evento potrebbe esortare le fabbriche di criptovalute ad abbandonare in futuro il Kazakistan alla volta di terre più favorevoli.
Piccola precisazione: non si tratta, chiaramente, dell’unica possibile causa del trend negativo della criptovaluta delle scorse settimane. Anche le decisioni prese dalla Fed, la banca centrale degli Stati Uniti, sull’anticipo dell’aumento dei tassi di interesse avrebbero avuto un peso significativo. Resta pur sempre difficile risalire ai fattori che si celano dietro all’andamento del mercato delle cripto, notoriamente soggetto ad estrema volatilità.
L’ESIGENZA DI UN MINING PIÙ SOSTENIBILE
Se da un lato gli analisti prevedono una ripresa per le criptovalute nel corso dell’anno, dall’altro è inevitabile che sorgano dubbi sul loro futuro, reso incerto dalle annose criticità che il loro processo di estrazione comporta.
La crisi kazaka, che per citare le parole di Sergio Bellucci (saggista ed esperto di tecnologie) affidate ad Italian Tech è stata la “prima rivolta innescata dagli interessi del mondo digitale“, ha fatto luce sull’esigenza di una soluzione immediata e correttiva per l’universo delle criptovalute, che parta innanzitutto dall’impiego di energia rinnovabile per le blockchain.
Per le cripto è infatti tempo di inforcare la via della transizione energetica e appellarsi dunque a fonti energetiche più pulite. Il processo è già avviato: i ban imposti da alcuni Paesi (oltre alla Cina, a mettere il veto al mining sono stati di recente anche Iran e Kosovo) hanno incentivato il trasferimento degli hangar negli Stati Uniti e in Canada, dove l’estrazione delle cripto si fonda su fonti energetiche rinnovabili. Gran parte dell’attività di mining a stelle e strisce avviene infatti nello Stato di New York, alimentato per un terzo da fonti rinnovabili, ma anche in Texas, Arizona e New Mexico, dove sorgono enormi parchi eolici e solari.
Restando oltreoceano, a fare scuola è stato di recente anche lo Stato di El Salvador (dove Bitcoin è ora a corso legale), che estrae criptovalute utilizzando l’energia geotermica dei vulcani e punta alla creazione di una vera e propria “Bitcoin City“.
Insomma, si sta certamente andando nella direzione giusta; la conversione non sarà però un processo immediato e occorre ancora tempo prima di poter assistere ai primi risultati. Dopotutto resta difficile – se non impossibile – regolamentare un sistema così decentralizzato imponendo un abbattimento delle emissioni globalmente e uniformemente condiviso.
A far ben sperare è anche il Crypto Climate Accord: l’accordo, che ha riunito 180 realtà di crypto-mining, si impegna raggiungere l’azzeramento delle emissioni e la neutralità climatica del settore entro il 2030.
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