L’anomalia nel valore del momento magnetico dei muoni misurata al Fermilab potrebbe essere l’indizio dell’esistenza di una forza della natura o di particelle che ancora non conosciamo. Oppure, più banalmente, potrebbe trattarsi di un errore
L’8 aprile scorso la collaborazione di fisici dell’esperimento Muon g-2, condotto al Fermilab di Chicago, ha annunciato di aver osservato un’anomalia nel comportamento di un particolare tipo di particelle subatomiche, i muoni. La dichiarazione, attesa da tempo (i dati sono stati raccolti nel 2018 e ci sono voluti tre anni per completarne l’analisi) ha provocato un forte scossone nella comunità scientifica, dal momento che l’anomalia, qualora fosse confermata, potrebbe implicare l’esistenza di una nuova fisica non contemplata dal Modello standard delle particelle elementari, l’impianto teorico che contiene la descrizione e il comportamento di tutte le particelle al momento note alla scienza. Le reazioni non si sono fatte attendere: appena pochi giorni dopo l’annuncio, sul portale ArXiv (il server della Cornell University che ospita gli articoli scientifici prima della loro pubblicazione su rivista) sono stati caricati oltre 30 articoli teorici che cercano di spiegare il risultato, chiamando in causa, tra le altre cose, nuove forze della natura e nuove particelle dai nomi esotici come fakeoni e fotoni oscuri.
I protagonisti della vicenda
Per fare ordine in questa storia bisogna partire da lontano. I muoni sono delle particelle elementari prodotte, in natura, dall’interazione dei raggi cosmici con l’atmosfera terrestre e considerate i cugini pesanti degli elettroni: hanno la loro stessa carica elettrica (negativa), ma sono 207 volte più pesanti; sono piuttosto instabili, e decadono radioattivamente in elettroni e altre particelle superleggere (i neutrini) in poco più di 2 milionesimi di secondo.
Sono stati scoperti nel 1936 da Carl David Anderson e Seth Neddermeyer, in modo abbastanza inatteso (si dice che il fisico Isaac Rabi, premio Nobel nel 1944, commentò la scoperta esclamando “E questi chi li ha ordinati?”), e per diverso tempo in molti ne hanno minimizzato l’importanza, pensando che non avrebbero avuto un ruolo di spicco nel palcoscenico della fisica delle particelle. Non è stato così: tra le proprietà dei muoni, infatti, c’è il cosiddetto fattore giromagnetico, una grandezza che si indica con la lettera g e che misura la loro interazione con un campo magnetico esterno. Quando sono immersi in un campo magnetico, infatti, i muoni si comportano come piccole calamite, che si muovono – o più correttamente precedono – come farebbe l’asse di rotazione di una trottola in movimento.
Ora, una delle tante bizzarrie della meccanica quantistica è quella relativa al vuoto: nel mondo microscopico il vuoto non è mai realmente vuoto, ma popolato da particelle virtuali che appaiono e scompaiono di continuo, per cui ogni particella è costantemente circondata da un entourage di altre particelle, che ne influenza il comportamento. Stando alle previsioni della teoria, il fattore giromagnetico g di un muone solitario dovrebbe avere un valore pari a 2; ma dal momento che un muone non è mai solo, la formula deve essere corretta per tener conto del suo entourage: è per questo motivo che il fattore giromagnetico del muone è leggermente superiore a 2, ed è proprio questo fenomeno che dà il nome all’esperimento. Muon g-2 è il tentativo di misurare la discrepanza del valore di g rispetto alle previsioni: l’entità della deviazione di g ci dà in qualche modo una misura di quello che ancora non sappiamo.
Gli esperimenti: Brookhaven e Fermilab
Muon g-2, tra l’altro, non è il primo esperimento a provare a misurare il valore del momento magnetico del muone. Negli anni Settanta un esperimento condotto al Cern e guidato dal fisico Emilio Picasso misurò il g-2 del muone con precisoine non ancora sufficiente per cercare segnali di nuova fisica. Poi, nel 2001, Chris Polly e colleghi, allora in forze al Brookhaven National Laboratory, avevano cercato di farlo usando lo Alternating Gradient Synchrotron, un acceleratore di particelle in grado di creare fasci di muoni e spedirli in un anello in cui erano posti magneti superconduttori. E anche all’epoca, effettivamente, il valore misurato risultò essere diverso rispetto alle previsioni del Modello standard, ma la significatività statistica del risultato era troppo bassa per poter dichiarare ufficialmente una nuova scoperta.
L’esperimento attuale è iniziato nel 2018 ed è andato molto oltre, con un fascio di fotoni più intenso e con l’obiettivo dichiarato di raccogliere una mole di dati 20 volte superiore rispetto al tentativo precedente (nel frattempo, mentre gli sperimentali si davano da fare con gli acceleratori di particelle, i teorici non sono rimasti con le mani in mano: nel 2020 un gruppo di 170 fisici della cosiddetta Muon g-2 Theory Initiative ha ricalcolato il valore teorico di g, confermando la discrepanza rilevata a Brookhaven).
I risultati sono consistenti con quelli del 2001 e, combinati insieme, permettono di affermare che il valore sperimentale di g dista da quello teorico con una significatività di 4,2 sigma, il che equivale a dire che la probabilità che la misura sia avvenuta per caso è di 1 su 40mila. Molto bassa, certo, ma non ancora abbastanza: per dare l’ufficialità a una scoperta “oltre ogni ragionevole dubbio” la comunità scientifica, infatti, richiede una significatività di 5 sigma, corrispondente a una probabilità di errore di 1 su 2 milioni. Per arrivarci bisognerà aspettare ancora un po’: “Il risultato che abbiamo appena annunciato”, ci ha spiegato Graziano Venanzoni, ricercatore dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e co-portavoce dell’esperimento, “è relativo al 6% dei dati che verranno prodotti. Al momento abbiamo già acquisito i dati della seconda e della terza run, eseguite tra il 2019 e il 2020, e tra un paio d’anni dovrebbe essere pronta la loro analisi. Con queste nuove informazioni ci aspettiamo di ridurre l’incertezza di un fattore 2, ottenendo così una misura di g ancora più precisa”.
Altri calcoli (teorici)
Prima di illustrare gli scenari aperti dalla scoperta, bisogna segnalare, tra le tante reazioni della comunità, quella della Budapest-Marseille-Wuppertal Collaboration (Bmw), una collaborazione di fisici che hanno usato un altro metodo per calcolare (teoricamente) le interazioni del muone con il campo magnetico. Come spiega su The Conversation il coordinatore Zoltan Fodor, della Penn State University, la discrepanza del valore teorico e quello sperimentale di g, sostanzialmente, apre tre possibilità: prima, è la previsione teorica a non essere corretta; seconda, è il valore sperimentale a non essere corretto; terza (quella più intrigante), c’è una forza della natura che ancora non conosciamo. Mentre al Fermilab si concentravano sulla seconda possibilità, raffinando la misura sperimentale di g, l’équipe di Fodor ha scelto di perseguire la prima strada, cercando un modo alternativo per ricalcolare il valore teorico del momento magnetico.
In generale, le quattro interazioni che conosciamo al momento sono la forza gravitazionale, la forza elettromagnetica, l’interazione debole, responsabile dei decadimenti radioattivi, e l’interazione forte, che tiene insieme neutroni e protoni nei nuclei degli atomi. A parte la forza gravitazionale il cui contributo è trascurabile, le altre forze contribuiscono al momento magnetico del muone: oggi conosciamo con grande precisione i contributi che vengono dall’interazione debole e dall’elettromagnetismo, ma calcolare il contributo dell’interazione forte (il cosiddetto leading order hadronic vacuum polarization) è molto più complicato. Per farlo, i fisici si sono serviti fino a questo momento di un approccio misto, sia teorico che sperimentale: raccolgono i dati delle collisioni tra elettroni e positroni e li usano per misurare il contributo dell’interazione forte al momento magnetico del muone.
Fodor e colleghi hanno messo a punto un approccio alternativo, che ricorda molto quello usato per le previsioni del tempo, in cui i dati di temperatura, velocità del vento e pressione raccolti dagli aerei in punti precisi dell’atmosfera terrestre vengono posti in una griglia spaziale e quindi usati nelle equazioni che prevedono l’evoluzione del meteo: allo stesso modo, i fisici della collaborazione Bmw hanno inserito le equazioni base dell’interazione forte in un reticolo spaziotemporale e usato i processori di diversi supercomputer di tutta Europa per calcolare il contributo dell’interazione forte al momento magnetico. Così facendo, hanno prodotto una stima di g che sembra essere consistente con il valore sperimentale misurato a Brookhaven prima e al Fermilab poi. O almeno più consistente rispetto a quello prodotto dai modelli teorici tradizionali: “Se i nostri calcoli fossero corretti”, conclude Fodor, “il gap tra la teoria e le misure sperimentali si chiuderebbe, e con lui anche la possibilità di una nuova fisica dietro questi esperimenti”. I risultati del gruppo di Fodor sono stati pubblicati in una lettera su Nature.
Quale nuova fisica ci aspettiamo?
È proprio a proposito di questo che chiediamo, come prima cosa, spiegazioni a Venanzoni. “Siamo estremamente contenti di tutte le reazioni suscitate dal nostro lavoro”, ci racconta. “La scienza funziona così, per piccoli avanzamenti continui. Le conclusioni del nostro esperimento, sulle quali mi sento molto fiducioso, fanno riferimento alla teoria standard; se si apre uno scenario in cui ci sono nuove previsioni teoriche, ben venga: ora la palla passa ai fisici teorici, che dovranno verificare i calcoli e stabilire quali sono quelli più giusti. In ogni caso, in capo a un paio d’anni dovrebbe essere pronta anche l’analisi dei nuovi dati, con una statistica quattro volte superiore rispetto a quella che abbiamo analizzato oggi: a quel punto potremmo sapere con maggior certezza. Siamo in una fase molto elettrizzante, in cui si possono aprire diversi scenari”.
Fatte tutte queste premesse, arriviamo finalmente alla questione più interessante: se la discrepanza dovesse essere confermata, quale nuova fisica potrebbe arrivare? Quello che sperano i fisici è un significativo passo avanti rispetto al Modello standard, una teoria solidissima che però ha alcuni limiti: “Il Modello standard è uno splendido 50enne che dimostra non più di vent’anni”, spiega Venanzoni, “dal momento che quasi tutte le sue previsioni sono puntualmente confermate dagli esperimenti. Tuttavia, ci sono ancora degli aspetti poco chiari e problematici. Uno di questi, per esempio, sta nel fatto che il Modello standard ci presenta i costituenti fondamentali della materia in tre diverse famiglie (elettrone, muone e tau, con i relativi neutrini) del tutto identiche se non per la massa; queste tre famiglie si replicano anche per i quark. In aggiunta, il modello comprende anche i mediatori di tre delle forze che conosciamo (la gravità, in questo momento, è ancora esclusa)”. Ma, aggiunge Venenzoni, “il problema è che il modello non ci dice niente sul motivo per cui debbano esistere tre famiglie: la misura di g potrebbe aiutare proprio a capire perché il muone è una copia esatta dell’elettrone ma con una massa diversa, perché c’è bisogno della sua esistenza nell’universo, e se esistono altri gradi di libertà della teoria in cui le famiglie possono essere unificate, ossia un’altra prospettiva rispetto alla quale elettroni e muoni sono la stessa particella. È per questo che i muoni sono così importanti”.
Un’altra delle piccole crepe del Modello standard sta nel fatto che non prevede l’esistenza della sfuggente materia oscura e dell’ancora più sfuggente energia oscura: cosa sono realmente? Perché esistono? “Questo è un problema molto complesso, e ancora aperto”, commenta lo scienziato. “Qualcuno ha provato a spiegarlo attraverso una modifica della gravità; potrebbero anche esserci nuove particelle, o nuove forze, la cui esistenza ancora ci sfugge. Ancora una volta, la risposta a tutte queste domande potrebbe arrivare proprio da g-2, che in questo senso è una specie di sonda che ci porta a comprendere la nuova fisica”. Tra tutte le idee proposte per spiegare la discrepanza osservata, Venanzoni cita per esempio la supersimmetria, una teoria che prevede che ogni particella abbia un suo corrispettivo simmetrico con massa diversa, e l’esistenza dei cosiddetti leptoquark, particelle ipotetiche che potrebbero interagire con quark e leptoni. Ma, al momento, si tratta solo di ipotesi: mentre al Fermilab analizzeranno i nuovi dati, toccherà ai teorici cercare di sbrogliare la matassa. Che si preannuncia parecchio intricata.
Leggi anche