Facebook vieta di promuovere la vendita o l’utilizzo di prodotti o di servizi per adulti, ma nelle maglie della moderazione dei contenuti finiscono anche decine di esperti di affettività, sessualità e psicoterapia relazionale, con conseguenze devastanti. Wired li ha intervistati
In un tempo di emergenza sanitaria cronica, Facebook può rappresentare un problema per i sessuologi italiani. Nel 2014, i professionisti di psicologia e sessualità registrati nel paese erano oltre 1.500. Con la pervasività del web, negli anni molti hanno optato per il digitale. In tempi di pandemia, anzi, i social network si sono rivelati un alleato essenziale nell’interazione sociale, pur con tutti i limiti dell’online. Eppure, la tecnologia utilizzata dalla società di Menlo Park non è in grado di distinguere la sessualità dalla pornografia. Facebook vieta di promuovere la vendita o l’utilizzo di prodotti o di servizi per adulti, “eccetto le inserzioni per la pianificazione di gravidanze o la contraccezione”. Sugli strumenti contraccettivi, la società specifica che “devono essere incentrati sulle funzioni contraccettive e non sul piacere sessuale o sul miglioramento delle prestazioni sessuali”. In altre parole, per Facebook il sesso come piacere non è neppure contemplato, ma classificato come un’attività strettamente funzionale, procreativa o meno.
Per giunta, l’algoritmo di Facebook non fa differenza tra sessualità, arte e contenuti pornografici. Nel primo caso, questo approccio ha una serie di conseguenze che ricadono sui professionisti del settore. Come attesta uno studio condotto dall’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, la salute sessuale degli italiani è profondamente cambiata, e l’aiuto di un professionista può essere utile. “Utilizzo spesso gli annunci sponsorizzati da Facebook tramite la mia pagina e in un paio di occasioni i miei contenuti sono stati bannati perché contenevano termini sessuali”, spiega la sessuologa Claudia Petrilli. “Ho scritto all’assistenza descrivendo il problema e mi è stato risposto che l’algoritmo si basa su determinate parole-stimolo, senza fare distinzione sui contenuti. Addirittura, una volta mi è stato impedito di pubblicizzare la pagina perché appariva la dicitura sessuologa: almeno in quell’occasione il problema mi è stato risolto dopo aver specificato all’assistenza che il sessuologo è un professionista della salute”, aggiunge Petrilli. Non è un caso isolato. Alberto Pala è un sessuologo e psicoterapeuta romano. Sulla sua pagina professionale ha cominciato a postare contenuti legati alle relazioni sociali e all’affettività, con discreto successo: “Durante la pandemia, con il distanziamento obbligatorio, molti hanno esplorato temi come l’affettività e l’importanza della sessualità”, spiega. Eppure, dopo un successo iniziale, l’algoritmo ha iniziato a bannare i suoi contenuti sponsorizzati: “Sembra che parlare di sessualità non sempre sia cosi gradito né accettato. Gabbie su gabbie”, ha scritto nel suo ultimo post pubblicato sulla sua pagina Facebook. Ora rischia che la stessa venga bannata in modo permanente, a scapito degli investimenti che in passato ha dovuto sostenere per aumentare il reach, cioè la diffusione dei suoi contenuti attraverso post sponsorizzati.
Sulle piattaforme social può essere complicato confermare la veridicità di un account. In questo caso, però, l’algoritmo vieta le sponsorizzazioni persino di centri professionali registrati. È il caso del Centro integrato di sessuologia – Il Ponte, diretto dal sessuologo Daniel Giunti: “Ho avuto problemi con la pagina del mio centro di sessuologia fin dall’inizio”, spiega Giunti a Wired. “I contenuti non venivano accettati e io facevo reclami. Col tempo, l’algoritmo ha cominciato a bannare qualsiasi contenuto della mia pagina, seppure non legato strettamente a parole come sessualità. Oggi non posso avvalermi di strumenti di sponsorizzazione, né fare campagne per aumentare i follower”. Giunti ha provato a contattare l’assistenza: “Apparentemente, l’operatore capiva le mie ragioni e segnalava il mio caso. Ma ciò non è bastato”. Oggi Giunti è passato su Instagram, dove la sua pagina conta 425mila follower ed è un riferimento per molti. “L’idea generale era: non puoi promuovere nulla che in qualche maniera solleciti le persone a fare sesso, neppure pubblicando ricerche scientifiche”, dice rassegnato. Ha scelto Instagram anche Giulia Tracogna, psicologa che si occupa di diversity e tematiche lgbt: “Alcuni colleghi attivisti mi avevano messo in guardia sulle policy sono molto rigide, per cui ho agito preventivamente”. Ma l’utilizzo di un’altra piattaforma – per di più di proprietà della stessa società – non elimina il timore dei ban permanenti. “Cerco di muovermi preventivamente. Ogni volta che parlo di sessualità, evito l’utilizzo di parole strettamente mediche o foto di nudi”, spiega Tracogna, rivelando alcuni modificare le parole ritenute “sensibili” perché non siano tracciabili: “Si tratta di un tema complesso: in merito alle immagini, sono al corrente di attiviste body positive che hanno subito ban per foto di seminudità, laddove nel caso di corpi ritenuti ‘perfetti’ per convenzione sociale, questi stessi divieti non sono applicati”. In questo caso, non è certo se si tratta di un algoritmo che individua immagini sensibili oppure di segnalazioni da parte di utenti molesti. Il punto, comunque, è che il team di moderatori recepisce senza discernere quanto valuta un algoritmo.
Ma i ban non riguardano soltanto i sessuologi o gli psicologi. La denuncia viene anche dalla social media strategist Marvi Santamaria, icona italiana della divulgazione della sessualità e organizzatrice del Festival delle relazioni digitali. “Quasi sempre non posso sponsorizzare i miei contenuti su Facebook e Instagram perché i miei profili vengono erroneamente scambiati per ‘servizio di incontri’ e Facebook ha una policy rigida in merito”, spiega. Solo in alcuni casi, lei è riuscita a sbloccare il ban sulle sue inserzioni, nonostante una community molto seguita grazie al suo blog Match and the City, incentrato su dating app e sessualità: la sua omonima pagina Instagram conta oltre 15mila follower. “Per non incappare in censure, un suggerimento che mi sento di dare è autocensurarsi, spostando i contenuti più espliciti su un blog personale. Quando utilizziamo piattaforme social, purtroppo dobbiamo ricordarci che non siamo i padroni di casa, ma siamo ospiti e come tali sottostiamo alle regole delle piattaforme, che peraltro sono anche mutevoli”, aggiunge.
Come digital & social media strategist, Ana Maria Fella segue da anni le campagne di alcune organizzazioni non-profit di piccola e media entità, che trovano nelle piattaforme social un alleato essenziale per iniziative di sensibilizzazione e crowdfunding. “Purtroppo nell’ultimo anno ciò che ho notato è che – a causa principalmente di Covid-19 per la mancanza di personale Facebook e per evitare che vengano usati determinati termini in modo sbagliato – i sistemi di intelligenza artificiale e machine learning causano blocchi più o meno pesanti su alcune inserzioni”, denuncia. Il suo caso è paradigmatico. Fella segue una onlus italiana importante, che si occupa di supporto psicologico ai bambini malati di cancro. Durante l’emergenza sanitaria, le stessa ha esteso il suo servizio gratuito ai pazienti col virus e al personale sanitario. A un certo punto, Facebook ha sospeso gli annunci: “Nessun prodotto era in vendita, né erano richieste donazioni. Dopo aver bloccato l’inserzione dicendo che violava gli standard della community, ho fatto richiesta di review. È arrivato un messaggio di scuse da parte della piattaforma per aver bloccato l’inserzione, poi il giorno successivo – senza preavviso – Facebook ha stabilito che il ban era permanente” spiega.
“Dopo mesi, parlando con la chat del customer service, ci è stato consigliato di non usare più parole legate alle malattie, in particolare legate al Covid, perché il loro sistema automatico non fa distinzione e blocca le inserzioni contenente quelle parole. A oggi, però, la onlus non può più effettuare campagne a pagamento di raccolta fondi per i loro progetti legati al supporto psicologico per i bambini malati di cancro e le persone che hanno bisogno in un’emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo. Un grave problema per un’associazione che utilizzava i social per arrivare a un nuovo pubblico e raggiungerlo con le sue iniziative”, afferma con frustrazione Fella. Dello stesso avviso è Michele Spaccarotella, psicologo autore del libro Il piacere digitale (Giunti, 2020): “Nel libro non parlo solo di sessualità, ma di relazioni digitali e fenomeni come il ghosting, le dating app e il corteggiamento online”, ci tiene a specificare. Dopo alcune presentazioni che, per la pandemia, sono avvenute sui canali social, Facebook ha impedito all’autore di sponsorizzare il suo libro per via di parole ritenute sensibili: “Ho cambiato contenuti e post, eliminando le parole ‘bannabili’, ma le successive sponsorizzazioni sono state bloccate a prescindere dal contenuto. Ho poi lasciato perdere: era diventato frustrante caricare un post e vederselo bloccare ogni volta”, ha detto. Spaccarotella ha, così, perso la possibilità di sponsorizzare il suo libro, nonostante il crescente interesse della community digitale per il tema dell’affettività online.
Con 2,8 miliardi di utenti attivi al giorno, è complesso per Facebook monitorare ogni singolo contenuto. Per questo, stando alle ultime statistiche, la società ha superato il record di assunzione di personale, segnando un aumento del 30% su base annua. Questo tuttavia non giustifica perché, a fronte di segnalazioni motivate, come nei casi menzionati, spesso la piattaforma non revochi i ban, anzi li renda permanenti. “In tempi come questi, la cosa più importante che noi di Facebook possiamo fare è sviluppare l’infrastruttura sociale per dare alle persone il potere di costruire una comunità globale che funzioni per tutti noi”. Era il 2017 e Mark Zuckerberg scriveva quello che sarebbe diventato noto come The Facebook Manifesto. Non c’era ancora una pandemia a minacciare l’umanità, ma oggi è lecito chiedersi quanta responsabilità abbia il social più utilizzato al mondo non solo nella creazione di legami sociali, ma anche nell’impronta che i suoi algoritmi stanno imprimendo sulle nostre fragili vite.
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