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30.10.2019 In Tecnologia

Il ragazzo che comunica con la luce

Il 29 ottobre a Milano è stato trasmesso un messaggio audio attraverso una semplice luce Led dal Palazzo Lombardia (sede della Giunta della Regione Lombardia) al grattacielo Pirelli (sede del Consiglio). L’occasione è stata la celebrazione del primo messaggio internet scambiato il 29 ottobre 1969 tra l’università di Los Angeles e il Research Institute di Stanford. Un evento che può essere considerato l’antesignano di una spedizione via internet e che riguardava l’invio di pacchetti di dati.

Il “ponte luminoso” tra le due sedi istituzionali, attraverso comuni led, è stato messo a punto da Alessandro Pasquali, inventore ed imprenditore che conduce esperimenti in questo campo da oltre 10 anni. Focus lo ha incontrato qualche mese fa. Ecco la sua storia.

A Calais è andato con la sua Golf grigia: è partito da qui, Riva San Vitale, sponda sud del lago di Lugano, con il fratello più piccolo e un “doppio equipaggiamento” nel baule. Componenti per montare il trasmettitore e il ricevitore, attrezzi, Led, ricetrasmittenti. Al ritorno ha fatto tutta una tirata: 1.200 chilometri, dopo avere trasmesso musica dalle scogliere di Dover a Calais, attraverso la luce. Come la fibra ottica, ma senza la fibra: solo il “campo aperto” dei 33 chilometri del Canale della Manica.

Alessandro Pasquali ha 28 anni. È da quando ne ha 16 che ha un’idea fissa: usare la luce, la sua onda, per trasmettere dati («qualunque tipo di dato, in codice binario»), al posto delle onde radio. «Per me la luce è il mezzo di comunicazione più universale che esista», dice. In campo aperto, le grandi aziende delle telecomunicazioni sono arrivate a trasmettere più o meno per trenta metri. Lui, da solo, per 33 chilometri. «La prima notte a Dover è arrivata la polizia e mio fratello ha dovuto smontare tutto. Il giorno dopo ho preso il traghetto dalla Francia, ho percorso le scogliere a piedi per trovare un punto sicuro, poi sono tornato indietro a Calais. Alle undici il trasmettitore di mio fratello funzionava, ma il mio ricevitore no. Stavo lì al freddo, con la torcia, in mezzo al vento e al nulla: mezzanotte, la una, le due, le tre, niente. Per un secondo mi sono detto: missione fallita. Poi ho smontato e rimontato tutto. Funzionava. Ho ascoltato per intero la playlist di mio fratello». 

Il primo passo, 10 centimetri. Era l’estate del 2016, il 27 luglio. Nove anni prima, «quando avevo ancora 16 anni, nel sottotetto della casa a Stelvio, in Val Venosta, dove sono nato, avevo fatto il mio primo esperimento». Un Led, una bozza di trasmettitore, una bozza di ricevitore. Risultato: «A dieci centimetri di distanza si sentiva la musica». In tre settimane, i dieci centimetri sono diventati un metro; nel giro di pochi mesi, decine di metri. A sette anni Alessandro costruiva piccoli circuiti, a dieci le prime radioline, «funzionanti».

Il Dna del radioamatore l’ha ereditato dal padre, ufficiale degli alpini, di stanza in Alto Adige fino a che Alessandro ha avuto cinque anni (però Stelvio è rimasta la casa delle vacanze e del cuore: a due passi da lì, a Silandro, ha incontrato Magdalena, che dall’estate scorsa è sua moglie). Poi la famiglia si è spostata: il lago di Bracciano, Roma, Bologna, Varese e infine Lugano. Oggi il papà ha aperto una scuola di droni. 

«Mi ha insegnato la tecnica. Invece mia madre mi ha trasmesso la passione per la natura e l’osservazione». A Roma Alessandro studia all’Istituto Agro-ambientale, dove gli insegnanti lo incoraggiano a sviluppare le sue idee. L’insegnante di chimica, in particolare, gli trasmette la passione per questa materia. La tesi in fotochimica (a Milano Bicocca) non ha avuto tempo di finirla: «All’inizio questi esperimenti erano un hobby, volevo tornare a fare la guardia forestale a Stelvio. Poi qui a Lugano ho iniziato a dare lezioni private di chimica: gli studenti si trovavano bene, si è sparsa la voce. Alla fine il direttore di un liceo privato mi ha chiesto di andare a insegnare».

Ha fatto esperimenti in pubblico: una “telefonata” con il padre attraverso le sponde del Lago di Lugano («esattamente un chilometro»), la trasmissione del messaggio del vicesindaco dalla vetta del Monte Bre fino in città, la riproduzione di un concerto in provincia di Cuneo, dalla cima di un castello. Qualcuno ha deciso di investire su questa mente fuori dagli schemi: così nel 2015 è nata la sua azienda, Slux. 

Ma è tutto vero? Lux è luce e S sta per smart, super, swiss… Il laboratorio, be’, è una stanza del suo appartamento. Da qui compete con le aziende della Silicon Valley: «L’anno scorso sono stato in California sette volte, ho visitato tutti i più grandi nomi che esistano. Pensi un nome: ci sono stato. Erano impressionati, ma volevano sapere tutto subito…». Come è possibile che un ragazzo, da solo, riesca a fare ciò che ingegneri e tecnici strapagati e con grandi laboratori non riescono a fare? 

«Non lo so. Credo sia una questione di visione: io ho più un approccio basato sulla chimica, la fisica e la natura della luce. Loro sono più concentrati sull’oggetto, sull’elettronica». Per capire questa visione basta entrare nella stanza-laboratorio (ordinatissima). «Qui nel primo scaffale c’è la teoria: la chimica». Tanti manuali e meravigliose fialette con liquidi fosforescenti e cristalli che reagiscono alla luce. Nel secondo ci sono gli attrezzi per montare i circuiti. C’è “l’angolo della radioattività”: «A un certo punto mi sono fatto regalare dei contatori Geiger. Stavo per ore su Internet a cercare fonti di radioattività nei dintorni di Roma: alla fine, l’intelligence americana ha bloccato il computer di papà». Poi c’è una valigetta in acciaio, che contiene un circuito (“il trasmettitore”) e una specie di cono, da cui esce un fascio di luce: il Led. «Funziona come l’antenna del Wi-Fi», dice Pasquali. In pratica, è attraverso la luce del Led che passano i dati. Come? 

Gli strumenti di lavoro di Alessandro Pasquali, che con la sua tecnologia riesce a ottenere risultati ancora fuori dalla portata dei colossi delle telecomunicazioni. Con la tecnologia Li-Fi tradizionale, infatti, si può comunicare solo in spazi chiusi come l’interno di una casa. Pasquali, invece, riesce a inviare dati anche a decine di km di distanza, e tra stanze separate da un porta chiusa: in quest’ultimo caso, il segnale è trasmesso dalla poca luce che passa dal buco della serratura e sotto la porta. | Roberto Caccuri per Focus

La voce del sole. Oltre al trasmettitore c’è un ricevitore, «una specie di radio che funziona con la luce», a cui è collegata una cassa. Il ricevitore è uno scatolotto che, appunto, “vede” il fascio di luce e, una volta colpito, fa sì che dalla cassa… esca la musica, per esempio quella del tablet. E se, con il ricevitore, si va in un’altra stanza, la musica continua a suonare. Sorride: «Questo, al momento, nel mondo non riesce a farlo nessuno». Ha superato la barriera della “visibilità”. Non è tutto. Se il ricevitore viene lasciato libero di captare la luce che entra dalla finestra, si sente un fruscio: «È la voce del Sole. Sembra di sentire un fiume che scorre, e in effetti è così: un fiume di fotoni. Per me questo suono è molto rilassante. Il mio preferito».

Ogni tanto Alessandro si diverte: ha trasmesso usando la luce di una candela, ha registrato il “rumore” della luce di una lucciola (toc-toc) e il suono di una stella: «Questo vento, questo tremolio che si sente, è lo stesso tremolio che vediamo quando guardiamo una stella nel cielo…». Nella stanza c’è un cubo nero. «È un ricevitore molto sensibile, che serve a captare eventuali segnali dallo spazio», racconta. Ma si possono anche “spedire” messaggi nell’universo, grazie a una piramide in bronzo argentato collegata a un microfono, che raccoglie il suono e lo trasforma in messaggi luminosi.

A suon di brevetti. «Vorrei creare una postazione fissa per la comunicazione intergalattica», continua Pasquali. Il suo sogno è aumentare la distanza di trasmissione («superare i 50 km, poi i cento, poi migliaia») e «sviluppare tutte le potenzialità del sistema, che ora è soltanto al 20%». C’è un altro 80% su cui lavorare. «In California ho ricevuto offerte anche interessanti, ma non ero sicuro che volessero sviluppare questa visione a lungo termine». Del resto il suo modello è Guglielmo Marconi: «Sono convinto che, se non fosse morto, Marconi avrebbe proseguito i suoi studi lavorando sulla lunghezza d’onda della luce. E sono anche convinto, e ne ho parlato a lungo con sua figlia Elettra, che avrebbe avuto un approccio che ricorda un po’ il mio». Monta, rimonta, smonta, prova, ritenta. Cavi, quarzi, pinze, decine e decine di Led da 5 millimetri, come capocchie di spillo. «Sto chiuso a fare esperimenti anche quindici ore di fila, per giorni e giorni. Poi capita una mossa sbagliata ed è tutto da rifare. Mi arrabbio. Ma io non mi fermerei mai». Nel frattempo ha già depositato undici brevetti.

Eleonora Barbieri

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Focus 319 (maggio 2019)

Articolo originale disponibile qui

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