In Italia sono incerte le norme che regolano le spettanze sul possesso di criptovalute, dall’inquadramento delle stesse alle operazioni. Cosa dicono alcuni fiscalisti
I bitcoiner della prima ora non lo avevano messo in conto: pagare le tasse su una criptovaluta del valore di pochi centesimi 10 anni fa non era nell’ordine delle cose. Ma quando il sogno di Satoshi Nakamoto ha cominciato a prendere forma, l’ipotesi di doversi confrontare col Fisco è diventata una certezza. E oggi che un bitcoin vale attorno ai 45mila euro, chi ne possiede sa che non può più sfuggire alla questione: ma in Italia sui bitcoin si pagano le tasse?
La verità è che la risposta a questa domanda non è affatto scontata. “Diciamo subito che esiste una grande incertezza normativa perché le criptovalute sono a-territoriali e questo fa venire meno uno dei principi su cui si basa l’imposizione fiscale”, spiega a Wired Gianluca Massini Rosati, esperto di tasse e di fiscalità delle criptovalute. Il ragionamento dell’esperto parte dal presupposto che l’imposizione fiscale si basa sul concetto di residenza di chi produce reddito e sul concetto di territorio nel quale tale reddito è prodotto.
Esistono trattati internazionali che normano i redditi prodotti in altri stati e regole che obbligano la dichiarazione di patrimoni detenuti all’estero. E qui nascerebbe il problema: le criptovalute sono totalmente a-territoriali. Una volta create sono all’interno di server sparsi in tutto il mondo che superano qualsiasi confine. “L’Agenzia delle entrate – continua Massini Rosati – ha tentato di normare le criptovalute, però dobbiamo ricordare che non ha potere normativo. In Italia le norme devono uscire dal parlamento. Da qui nasce quindi l’incertezza normativa. In Italia manca una legge che dica come devono essere tassate le criptovalute”.
Come sono inquadrate le criptovalute
Massini Rosati chiarisce: “Ci sono alcune circolari dell’Agenzia delle entrate che identificano le criptovalute come valuta estera, pertanto l’obbligo di dichiararle, ai fini del monitoraggio, dovrebbe scattare se deteniamo più di 15mila euro, mentre la cifra oltre la quale si devono pagare le imposte sui redditi Irpef dovrebbe scattare al superamento dei vecchi 100 milioni di lire di controvalore, 51mila euro circa, detenuti per più di 7 giorni lavorativi continuativi durante l’anno in un exchange di criptovalute, e l’imposizione fiscale sarebbe del 26%”.
Inquadrando le criptovalute come una valuta straniera, come prevedono alcune circolari dell’Agenzia delle entrate, occorre pagare le tasse se superano i 51mila euro, che alle quotazioni odierne significa un po’ più di un bitcoin. “L’inquadramento tra le valute estere consente di accedere alla soglia minima di 51.645,69 euro di criptovalute possedute e quindi di escludere da tassazione i piccoli risparmiatori”, osserva Francesco Avella, fiscalista in Milano ed esperto di criptovalute: “Altri inquadramenti possibili – in molte parti del mondo, per esempio, le criptovalute vengono inquadrate come beni immateriali ai fini fiscali – potrebbero rivelarsi più penalizzanti. Di certo, comunque, è auspicabile che al più presto venga inserita una disciplina specifica, che dia chiarezza a tutti”.
Dove nasce la posizione del fisco italiano?
“Chi conosce le criptovalute sa che assimilarle a valute estere non è del tutto appropriato”, precisa Avella: “L’Agenzia basa la sua tesi su una sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 2015 in materia di Iva e criptovalute, in cui i giudici europei affermarono che le operazioni in criptovalute sono da considerarsi come relative a divise, banconote e monete; per questo, l’Agenzia delle entrate ha ritenuto che ai fini delle imposte sui redditi le operazioni su criptovalute devono considerarsi alla stregua di operazioni su valute estere”.
Exchange versus wallet
Il paradosso è che la tassazione potrebbe (il condizionale è d’obbligo) anche dipendere da dove sono custoditi i bitcoin. “Non è chiaro se la tassazione vada applicata anche in caso di prelievi dai wallet e quale definizione di prelievo assuma rilevanza. Non è chiaro se debbano essere tassate le operazioni cripto-to-cripto in cui il guadagno non si tramuta in valuta avente corso legale. Secondo alcuni, poi, non tutte le tipologie di wallet avrebbero la medesima rilevanza ai fini fiscali, sebbene questa tesi non sia del tutto convincente. E altri dubbi applicativi che emergono nell’applicazione pratica delle norme ai casi concreti”, continua Avella.
Bisogna dichiarare il possesso di criptovalute?
La confusione nasce dal fatto che la legge in Italia ha regolato il fenomeno delle criptovalute esclusivamente ai fini dell’antiriciclaggio, senza farlo in tutta la sua interezza, in attesa (forse) di una normativa europea. “Il possesso di criptovalute deve essere dichiarato nel quadro RW della dichiarazione dei redditi, cioè nel quadro che riguarda i beni posseduti all’estero. Si tratta di un mero adempimento formale, che non comporta il pagamento di tasse o imposte, dato che secondo l’Agenzia delle entrate non è dovuta l’imposta sul valore delle attività finanziarie estere, Ivafe, sulle criptovalute)”, afferma Avella. Attenzione però, precisa il fiscalista: “L’obbligo di indicare le criptovalute nel quadro RW è stato affermato per la prima volta dall’Agenzia delle entrate a partire dal periodo d’imposta 2018, cioè nelle istruzioni relative alla dichiarazione dei redditi che doveva essere presentata nel 2019 per il periodo d’imposta 2018, e pertanto per le annualità precedenti vi sono ottime ragioni per sostenere che non sono irrogabili sanzioni”.
Cosa succede nel resto d’Europa e nel mondo?
In Europa non esiste oggi una norma fiscale sulle criptovalute uniforme. Alcuni paesi non prevedono il pagamento di alcuna tassa. Tra questi ci sono Svizzera, Montecarlo ma anche Portogallo. Allargando gli orizzonti, si scopre che lo stesso succede in Bielorussia, Cina, Bahamas, Seychelles, Singapore.
Particolare poi il caso tedesco. “In Germania, i capital gains su criptovalute non sono tassati soltanto se realizzati dopo un anno di possesso delle criptovalute stesse, mentre sono tassati se realizzati entro un anno di possesso e se di importo superiore a 600 euro annui, come accade per tutti i capital gains su cessioni da parte di privati. Le regole sono simili a Malta e in Slovenia”, chiosa Avella. E nel resto del mondo? “Negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Francia, Australia, Canada, Giappone, Israele, Singapore e in molti altri Stati in cui la questione è stata affrontata, i capital gains su criptovalute sono di regola tassati, ferme restando eventuali soglie di non tassabilità tipiche di ogni legislazione”, spiega Avella. Insomma, anche per le criptovalute vale l’eterna regola: paese che vai, usanza che trovi.
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