Dal 21 novembre e per tutto il weekend si celebra la Festa dell’albero di Legambiente. Noi ci uniamo alla festa arborea coi libri, dove sono stati un’immagine di valenza metaforica e uno sfondo per storie familiari o collettive
Dal 21 novembre scorso e per tutto il weekend in Italia si celebra la Festa dell’albero, una ricorrenza annuale promossa da Legambiente che ci ricorda la fondamentale importanza nell’ecosistema di ogni singolo tronco. E, nonostante spesso l’incuria e le calamità naturali (se è ancora consono chiamarle tali) stiano bistrattando ovunque i nostri boschi e foreste, per la nostra cultura e letteratura l’albero è sempre stato una potente metafora, sia di radicamento che di fuga dalla realtà (si pensi al classico di Italo Calvino, Il Barone rampante ma anche al Buzzati de Il segreto del Bosco Vecchio), simbolo di vita che resiste, e di legami famigliari inscindibili. In tempi in cui le piante e gli alberi divengono importanti alleati di sopravvivenza e quasi druidi da venerare per sopravvivere al cambiamento climatico, non possiamo che dedicare uno sguardo ad alcuni libri recenti che discettano di temi arborei.
Come dimenticare, quest’anno, l’arrivo in libreria del romanzo enciclopedico e Premio Pulitzer 2019 di Richard Powers, Il sussurro del mondo (La Nave di Teseo) che parte proprio dall’assioma che sia possibile raccontare le nostre vite e generazioni seguendone il legame con tanti alberi simbolici, citati a man bassa nel voluminoso libro, con una dovizia che al letterario unisce lo sguardo da botanico incallito. Il romanzo, che già dall’indice diviso in parti seguendo la morfologia arborea (dalle Radici sino ai Semi) fin dalle prime pagine mette in campo vari personaggi, americani ma provenienti da famiglie che vengono dalla Norvegia alla Cina, e i loro destini generazionali legati ad alberi, che li chiameranno – chi più da vicino, come eco-attivista (e forse terrorista) chi più intellettualmente (da pensatore dendrologico) – ad agire a favore di una mistica arborea. Ma è anche un libro politico, quello di Powers, che racconta le radici complesse dell’America stessa, un luogo che più di altri può percepire il cambiamento climatico, ma forse lo nega nel profondo della coscienza.
Parlando di radici compromesse e insanguinate in America, ma anche di un genus loci che insegnava già a dialogare potentemente con gli alberi prima del trend di questi anni, potremmo fare riferimento a un altro libro che lo scorso anno ha fatto parlare di sé in America, il romanzo d’esordio di Tommy Orange, autore Arapaho e Cheyenne, tradotto in Italia per Frassinelli come Non qui, non altrove (il titolo richiama il tentativo fallito di Gertrude Stein di ritornare al vagheggiato luogo d’infanzia di Oakland, descritto in Autobiografia di tutti). Il romanzo si apre in realtà con un prologo in forma di saggio e requisitoria in cui si eviscerano i massacri peggiori ai danni dei pellerossa nel corso della storia: le sevizie, lo sterminio, le brutalità gratuite contro i nativi americani. Si legge tra l’altro, attraverso un Noi collettivo molto forte: “Non si limitarono a ucciderci. Ci massacrarono. Ci mutilarono… Noi ci nascondevamo nei tronchi cavi degli alberi, sotto la sabbia in riva al fiume…”, come a richiamare un legame naturale spezzato dalle pallottole degli sterminatori.
Come nel caso di Powers, l’autore poi si addentra in varie storie individuali che seguono i conflitti generazionali di giovani americani contemporanei di origine indiana, in conflitti spesso famigliari con padri e madri che a volte negano la loro stessa origine, ma legati anche a questioni endemiche e annose per i native Americans come l’alcolismo. E sempre come Powers, ci fa poi ritrovare molti di loro ad un pow wow, uno dei raduni che si celebrano ogni anno danzando sui resti del sangue dello sterminio in cerca di una patria possibile… Il romanzo di Orange è rilevante per il suo essere a tratti un rabbioso e puntuale attacco al politically correct e per portare a galla demistificandoli i simboli abusati dai media e rubati alla cultura nativa americana. Per uscire dalla riserva, bisogna prima di tutto uscirci mentalmente, pare dirci Orange, decostruendo le proprie gabbie personali come andando a potare le radici oramai rinsecchite del proprio albero vitale.
Per Codice, è uscito invece in questi giorni un curioso e ambizioso romanzo, anch’esso d’esordio: Hannah versus l’albero di Leland de la Durantaye, in precedenza già studioso del linguaggio ed esperto del filosofo italiano Giorgio Agamben. Definito un thriller mitopoietico, e scritto in Italia a Roma durante un anno sabbatico, il romanzo mette in scena una ribellione che ha il fascino del mito: quella di Hannah nei confronti della propria casata, i Syrl, della quale è erede. “Prima della Scissione il nostro mondo si surriscaldò”, si legge all’inizio del romanzo, descrivendo un mondo dove la natura cambia anche a causa del business degli stessi Syrl, sfruttatori di immani risorse naturali. Hannah è stata però cresciuta in una fitta nebbia ricca di stimoli: assieme al suo amico innominato (narratore del romanzo) ha vissuto circondata da enigmatici nonni nell’enfasi della storia famigliare dall’antico lignaggio, correndo in mezzo a boschi secolari, educata ad allevare cuccioli di lupo, e studiando i miti non solo latini e greci. Da ragazza, nel momento di una prima ribellione, una violenza orrenda, sia fisica che mentale, da parte di un ramo della stesse famiglia la porterà a complottare contro il proprio albero genealogico, come in una tragedia arcaica. La qualità principale del romanzo di De La Durantaye è proprio quella di mescolare quesiti contemporanei (la lotta contro lo sfruttamento non solo dell’ambiente ma anche la violazione personale e sessuale) con echi arcaici.
Tornando in Europa, di radici – più culturali che familiari, che si pongono in conflitto con la realtà urbana, ma anche rappresentano ancora un lato magico benché terribile – parla anche l’ultima fiaba nera e romanzo in versi di Max Porter, Lanny. Il libro è ambientato in un villaggio fuori Londra dominato enigmaticamente dal proprio genius loci: Dead Papa Toothwort, uno spirito – nella tradizione folklorica inglese lo chiamano Green Man, un gigante con la faccia contornata di foglie che possiamo anche immaginare simile a un albero gigantesco con radici ovunque – che cambia forma e dimensione, ma che si connette con un talentuoso (per l’arte) e complesso bambino, Lanny, appena trasferitosi nel villaggio con i propri genitori, e che presto lì scompare – tra i sospettati c’è il suo maestro d’arte, Pete, uno stravagante artista locale. Il libro è gioioso quanto terrificante nella seconda parte (in terza persona), corale quanto intimo, parla dell’attualità di un’Inghilterra polarizzata tra grandi certi e zone rurali non idilliaci, ed è pieno zeppo di giochi di parole, ed altre esuberanze degne della stessa esuberanza dello Spirito di Papa Toothwort, tentacolare radice vouyeuristica, che ha visto tutto il passato, il presente – e, chissà, tutto il futuro – del luogo come fosse un albero secolare: “Dead Papa Toothwort respira, si rilassa, si lascia penzolare sulla scaletta, sorride e la beve tutta, la sua sinfonia inglese”. Ad epigrafe del libro questi versi: “Pace, il mio sconosciuto è un albero / che cresce naturalmente attraverso tutti i suoi / disagi, prove ed emergenze”.
Sul fronte latino-americano, potremmo richiamare il recente libro di uno dei più talentuosi autori latinoamericani, Alejandro Zambra che lo scorso anno Sellerio ha riportato in Italia con Storie di alberi e bonsai che raccoglie in realtà due racconti di Zambra legati dall’elemento arboreo: La vita privata degli alberi e Bonsai. Gli alberi hanno a che fare con il racconto complesso dell’intimità, in questi due testi, che danzano tra passato e presente magnificamente. Nel primo, vari alberi parlano nel ciclo di storie della buonanotte di un padre alla sua bambina (in realtà non sua – che si chiamano come il titolo del racconto e sono “una serie di storie che si è inventato (in cui protagonisti) sono un pioppo e un baobab che di notte, quando nessuno li vede, parlano di fotosintesi, di scoiattoli, o dei numerosi vantaggi dell’essere alberi invece che persone o animali” – mentre allo stesso tempo lui attende e s’inquieta, costruendo ipotesi tra terribili e prosaiche, sul ritardo nel tornare a casa della moglie Verónica – e così il racconto, nell’attesa, ricostruisce la storia d’amore dei due, prima di quella notte e di quella bambina, in un incastro perfetto. Nel secondo, il bonsai è il simbolo di una storia d’amore – o meglio di più storie d’amore a incastro: quello di Julio ed Emilia iniziato tra i banchi di scuola, tra letture e esperienze erotiche, che viene evocato nel presente dall’incontro di Julio stesso con un anziano scrittore che gli domanda di battere al computer il suo ultimo romanzo. La storia di un uomo che apprende dalla radio la morte della sua prima fidanzata, con la quale aveva condiviso, a unione simbolica, la cura di un bonsai. Come i bonsai descritti e usati a simbolo, il narrare di Zambra è caratterizzato da uno stile minimale capace però di impressionare nel suo entrare in punta di piedi nelle relazioni umane, ridonandone tutta la complessità attraverso un gioco di scatole perfette, come un intrico di rami in miniatura da percorrere con l’immaginazione.
In Italia, c’è chi tra gli editori ha pensato bene addirittura di dedicare una collana all’elemento arboreo, chiamando scrittori e poeti a raccontare in vari modi e corde il loro albero simbolico, intrecciandone i rami e i significati in romanzi letterari di agile lunghezza. Stiamo parlando della collana Il bosco degli scrittori di Aboca. Il primo titolo, L’olmo grande di Gian Mario Villalta si legava al dialogo tra alberi e dinastie familiari in pericolo, mentre Alberto Garlini ha proposto con Il fico di Betania, un giallo metafisico a partire dall’evento della maledizione del fico da parte di Gesù descritta nei Vangeli, così come l’evocativo duetto di racconti proposto da Ferruccio Parazzoli si descrive non solo come le nostre narrazioni siano usate per salvarci, ma che spesso ciò avvenga all’ombra di una chioma; oppure, come nel romanzo di Carmine Abate come gli alberi siano pieni di dolcissimi frutti di un’infanzia calabrese pronta a cambiare. Gli alberi della collana Aboca sono una iniziativa encomiabile in quanto chiamano gli scrittori a confrontarsi con il loro passato anche in quanto a produzione scritta, rendendo l’albero fonte di ispirazione nuova.
Chi poi non per occasione, ma seguendo una precisa poetica ha dedicato una passione totalizzante agli alberi è invece l’homo radix Tiziano Fratus, poeta di lungo corso, e oggi più saggista e narratore di foreste e sequoie. L’ultima sua fatica, I giganti silenziosi (Bompiani), traccia un percorso tra gli alberi millenari del nostro paese, dal punto di vista delle nostre principali città, ed è un utile mappa delle meraviglie per chi volesse immaginarsi ideali benché prossimi “itinerari urbani per cercatori di alberi”, così come è utile l’annessa “bibliografia dendrosofica” a fine volume. Caratterizza il libro uno studio del ruolo spirituale degli alberi, da un lato; dall’altro, però, di come gli alberi abbiano avuto un ruolo dell’architettura urbanistica, fin dagli albori. Potrebbe essere anch’esso un buon modo per abbracciare ogni tanto chi, silenziosamente, si prende cura di noi e della nostra salute ambientale e mentale, senza bisogno di avventurarsi in fughe romantiche o fin troppo esoteriche ricerche.
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