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01.10.2021 In Ambiente, Tecnologia

Perché i Paesi in via di sviluppo rischiano di rimanere fuori dalla Cop26

Vaccini non disponibili, quarantene, voli ridotti: arrivare a Glasgow può richiedere fino a 45 giorni e migliaia di dollari e i delegati dei Paesi in via di sviluppo potrebbe essere tagliati fuori

Cop 26, arrivare non sarà semplice per molti delegati. Nella foto, cartello di ingresso in Scozia
Arrivare al Cop26 di Glasgow non sarà semplice per molti delegati (Foto di Neil Cumins da Pixabay)

I 46 paesi meno sviluppati assommano il 14% della popolazione mondiale ma hanno ricevuto solo l’1% delle dosi di vaccino. Sono alte, altissime le aspettative sulla Cop26, ma le sfide per la prima edizione post pandemica non si esauriscono nella difficoltà di trovare una quadra tra quasi duecento paesi dagli interessi divergenti. Il problema sono le restrizioni per la pandemia.   

Il sistema “a semaforo” britannico cambierà il 4 ottobre con l’abolizione della lista gialla. Ma 56 Stati del mondo sono attualmente nella lista rossa, che resterà in vigore. Si tratta in buona parte dei casi di paesi poveri, denunciano gli attivisti, nonostante la presenza di pesi medi e massimi come Colombia e Brasile. La conseguenza è che per molti delegati rischia di essere impossibile raggiungere Glasgow, dove i colloqui avranno luogo, e rappresentare i propri interessi nell’unico vertice inclusivo della triade che comprende anche G8 e G20. Vediamo perché.

Visto, quarantena e mancanza di voli diretti

La trafila per raggiungere la Scozia è stata ricostruita da Brianna Craft, ricercatrice dell’International Institute for Environment and Development (IIED), per Climate Change News. “Per prima cosa – scrive Craft – è necessario ottenere un visto, non sempre disponibile nel paese in cui ci si trova. Così,  dal momento che non c’è la possibilità di farlo online, bisogna raggiungere un altro paese e fare richiesta di persona, aspettando lì fino a che una decisione non viene presa”. Già questo “significa che il primo ostacolo per andare nel Regno Unito può essere insormontabile per i paesi a reddito basso”.

Alle complicazioni si aggiunge la quarantena. “Così – nota la studiosa – un viaggio che avrebbe richiesto due o tre giorni adesso richiede diverse settimane”. Non ci sono voli diretti per Glasgow, e da molti paesi nemmeno voli diretti per la capitale britannica. È richiesto, quindi, almeno uno scalo. “Ma esistono Stati come le isole Fiji che non consentono il transito di alcun passeggero proveniente da altri paesi” aggiunge al telefono con Wired Camila More, che lavora con Craft .

Non solo. La pandemia ha ridotto il traffico aereo, e alcuni scali possono essere raggiunti solo una volta a settimana, nel peggiore dei casi una volta al mese. Per viaggiare verso il Regno Unito bisogna, perciò,  uscire dall’aeroporto e aspettare in albergo. Ma questo, in molti casi, significa quarantena. E costi che continuano ad aumentare.

Non finisce qui. “Una volta arrivati nel Regno Unito c’è la necessità di alloggiare in un Covid hotel se provenienti da un paese in lista rossa e non vaccinati, come gran parte dei delegati dei paesi meno sviluppati”. La tariffa dei covid hotel che include soggiorno, pasti e transfer è, attualmente, di oltre 2.000 sterline per undici giorni di quarantena.

Il risultato è semplice. Alla fine della trafila, conclude More, ci possono volere “diverse migliaia di dollari e fino a 45 giorni per arrivare a Glasgow”. Nel peggiore dei casi per molti la decisione è già presa: si resta a casa. Ma il punto, come vedremo, non sono  i ministri.

Studiosi e attivisti a rischio

Secondo quanto trapelato da un portavoce di Cop26, alle delegazioni ministeriali potrebbe essere consentito di prendere parte ai meeting grazie a una corsia preferenziale. Il governo britannico, che aveva offerto a luglio vaccinazioni a chi lo avesse richiesto, potrebbe persino farsi carico delle spese di quarantena per le delegazioni ufficiali.

Il problema, però, resta per una parte dei negoziatori. E per i cosiddetti observer. “Si tratta della società civile: media, studiosi, attivisti, che gravitano nell’orbita della conferenza internazionale e svolgono il delicato ruolo di cinghia di trasmissione tra tavoli estremamente tecnici e il pubblico – spiega a Wired Marirosa Iannelli, esperta di negoziati e coordinatrice di Italian Climate Network, che sarà presente a Glasgow – Oltre, naturalmente, a una funzione di controllo e supervisione: ad esempio, noi pubblicheremo giornalmente un resoconto delle riunioni, dando conto in tempo reale di quanto accade al vertice”.

Cinghie di trasmissione

Per comprendere l’importanza della presenza di questi corpi intermedi è necessario approfondire il funzionamento delle conferenze internazionali. “A un evento del genere – spiega Iannelli –  esistono sessioni formali, che vengono interamente registrate, e informali, nel corso delle quali la decisione di trascrivere o meno quanto detto viene presa seduta stante”. Per non parlare delle trattative riservate,di cui non esiste traccia e che avvengono in salette appartate al riparo da sguardi indiscreti.

Diventa evidente come la funzione di controllo e supervisione di chi si accredita e viaggia dall’altra parte del mondo, spesso a spese proprie, per rendere conto in patria, sia fondamentale per garantire il minimo della trasparenza. Anche per quanto riguarda la gestione delle trattative da parte dei governi, che non sempre – e soprattutto nei paesi poveri –  agiscono nell’interesse della popolazione paese. Non bastano le videoconferenze: una  presenza fisica è indispensabile perché le notizie trapelino. “Ma si tratta, comunque, di un’opportunità che al momento non è stata offerta per Cop 26 – precisa More a Wired –  Chi non ci sarà non potrà negoziare“.

Ma non solo. Associazioni e gruppi hanno un ruolo fondamentale nel trasmettere la consapevolezza del cambiamento climatico ai gruppi meno favoriti e dare voce alle loro istanze. Persone a basso reddito, con disabilità, appartenenti a minoranze o indigeni possono essere raggiunti solo dal lavoro capillare di diffusione di questi attivisti. Temi, peraltro, emersi chiaramente duranti i lavori di Youth4Climate a Milano.

La posta in gioco

A fare le spese di un’azione di monitoraggio poco efficace su tematiche come quelle dell’articolo 6 degli accordi di Parigi, relativo al carbone, potrebbero essere i paesi in via di sviluppo. Vasi di coccio tra i vasi di ferro della politica internazionale. “Ormai mi pare ci sia un consenso pressoché unanime sulla decarbonizzazione – afferma Iannelli –. Il tema non è più cosa fare: è quando. Se si assume il 2030 come data per un ipotetico abbandono del carbone, conta la gestione della transizione, la cosiddetta road map. Bisogna considerare che i documenti che emergono dai consessi internazionali sono testi particolari, dove contano anche le virgole, le congiunzioni”. Perché da quelle dipende il fatto che un impegno sia più o meno vincolante.

Un caso che fa scuola? La famosa soglia di 100 miliardi di dollari di aiuti ai paesi in via di sviluppo per la transizione energetica: il testo che impegna i “grandi” non chiarisce con precisione come si debbano fare i conti; e, soprattutto, non specifica che deve trattarsi di sovvenzioni a fondo perduto, e non di prestiti. Come, purtroppo, buona parte di quanto erogato fino a oggi.

L’esperienza di una ragazza ugandese

“Molti paesi nella lista rossa sono  poveri”, spiega a Wired Rose Kobusinge, 26 anni, delegata dell’Uganda giunta a Milano dal Regno Unito per prendere parte a Youth4Climate: “E parliamo di quasi metà del mondo. Anche paesi come il mio, che hanno certamente meno casi di Covid degli Stati Uniti. Il trattamento è diverso”. Neolaureata a Oxford, si appresta a cominciare un dottorato e non torna al a casa da due anni “perché non posso permettermi duemila sterline di quarantena”. Kobusinge, che ha cominciato nel Wwf locale ed è attiva principalmente in Africa nonostante viva in Europa, ha sollevato il tema nella plenaria di chiusura. “Da noi si parla poco di climate change – ci spiega – Il mio ruolo è quello di amplificare per la mia gente le tematiche che verranno discusse al vertice. La scienza è difficile da capire: stiamo lasciando indietro molta gente”.

Qualche ora dopo, incalzato da una giornalista, il presidente di Cop 26 e ministro britannico Alok Sharma ha riconosciuto che “il problema esiste, specialmente per l’area del Pacifico. Per alcuni  paesi ci stiamo assicurando che riescano a intervenire, ma per altri abbiamo bisogno di supporto dai partner della regione, con cui stiamo lavorando”. Per molti, però, potrebbe già essere troppo tardi.

Gestire il vertice dal punto di vista sanitario

La gestione sanitaria del vertice è sicuramente un tema sensibile in un paese, come il Regno Unito, duramente colpito dal Covid. A Glasgow sono attese tra le 20mila e le 25mila persone, e gli accrediti sono ancora aperti. La macchina organizzativa e diplomatica pare, però, in ritardo. Ma l’inclusività è il tema cruciale perché il vertice non sia un fallimento. O non si giunga a un compromesso al ribasso.

Il Covid non è l’unico problema. Se la prossima Cop sarà in Egitto, sussurrano gli attivisti, il timore è un altro: che alcuni gruppi possano essere bloccati dal regime perché non graditi.

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Articolo originale disponibile qui

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