È uno dei filoni aperti nella ricerca a trattamenti specifici contro il nuovo coronavirus, che cerca di sfruttare l’efficacia della risposta immunitaria dei pazienti che hanno superato l’infezione
(Foto: MIGUEL MEDINA/AFP via Getty Images)
Imparare dai guariti. Sfruttare l’azione del loro sistema immunitario, già allenato, per mettere fuori combattimento il virus in cui si trova ancora a combattere l’infezione. Si chiama sieroprofilassi ed è l’idea per cui è possibile utilizzare gli anticorpi di una persona già immunizzata come arma contro il virus. Più che una teoria: un vero filone di ricerca nella lotta a farmaci che funzionino contro il coronavirus, di cui si è parlato più volte anche in passato, per esempio nel caso di ebola. E in cui un ruolo di primo piano sembrano giocarlo appunto i pazienti guariti.
Chi sono i pazienti guariti
Parlare di pazienti guariti può avere diversi significati. Prima di tutto conferma che da Covid-19 si può guarire, pur riconoscendo la gravità della situazione, il fatto che ancora oggi il coronavirus è un patogeno per lo più sconosciuto, sul quale è possibile fare solo previsioni parziali sul peso effettivo in termini di sociosanitari. Ma concentrarsi eccessivamente sul numero dei pazienti guariti potrebbe non avere molto senso, almeno dal punto di vista epidemiologico, come vi avevamo raccontato e come ribadisce a Wired Gianni Rezza, a capo del reparto di malattie infettive dell’Istituto superiore di sanità. “La definizione stessa di pazienti guariti rischia di essere riduttiva, perché la maggior parte delle persone affette dal virus non sviluppano sintomi gravi. Di fatto è in ogni caso una sottostima, perché non considera chi non ha sintomi o sintomi lievi”. Ovvero, al momento, almeno nei bollettini epidemiologici, la conta dei guariti si riferisce unicamente ai pazienti sotto osservazione, quelli notificati: “Il conto delle persone guarite viene fatto sulle persone ospedalizzate o controllate a domicilio”, continua l’esperto.
Cosa si intende per pazienti guariti, il parere del Consiglio superiore di sanità
E come viene fatto? Mettendo insieme valutazioni cliniche ed esami medici. Nel parere espresso al riguardo dal Consiglio superiore di sanità, si legge: “Si definisce clinicamente guarito da Covid-19 un paziente che, dopo aver presentato manifestazioni cliniche (febbre, rinite, tosse, mal di gola, eventualmente dispnea e, nei casi più gravi, polmonite con insufficienza respiratoria) associate all’infezione virologicamente documentata da Sars-Cov-2, diventa asintomatico per risoluzione della sintomatologia clinica presentata. Il soggetto clinicamente guarito può risultare ancora positivo al test per la ricerca di Sars-Cov-2. Il paziente guarito è colui il quale risolve i sintomi dell’infezione da Covid-19 e che risulta negativo in due test consecutivi, effettuati a distanza di 24 ore uno dall’altro, per la ricerca di Sars-Cov-2”.
Il concetto di guarigione – che può comparire in intervallo piuttosto variabile dalla comparsa dei sintomi, precisa Rezza – ha dunque un significato più esteso e complesso della semplice scomparsa dei sintomi, come ci evince dallo stesso documento, chesi sofferma anche su quello di clearance (eliminazione) del virus e di comparsa della risposta anticorpale: “Nella maggior parte dei casi d’infezioni virali, la scomparsa del virus si accompagna alla produzione da parte dell’organismo di anticorpi di tipo IgG virus-specifici. Nella maggioranza delle infezioni virali, salvo rare eccezioni, tali anticorpi hanno carattere protettivo, ovvero sono in grado di proteggere l’organismo da eventuali reinfezioni con lo stesso virus. Sulla base dei dati disponibili, è ragionevole ritenere che questa protezione anticorpale possa essere presente anche per Sars-Cov-2”. Al punto che, conclude la nota: “due test molecolari consecutivi per il Sars-Cov-2, con esito negativo, accompagnati nei pazienti sintomatici dalla scomparsa di segni e sintomi di malattia nei pazienti sintomatici, siano indicativi di clearance virale dall’organismo. L’eventuale comparsa di anticorpi specifici rinforza la nozione di eliminazione del virus e di guarigione clinica e virologica”.
Terapie plasma-derivate
Ed è qui che il concetto di guariti potrebbe assumere un significato più ampio: i pazienti che ce l’hanno fatta potrebbero essere anche molto di più nella lotta al nuovo coronavirus, perché potrebbero – condizionale d’obbligo – essere una sorta di fabbriche di anticorpi utili per combattere le infezioni in chi ha da poco contratto il virus. Una pratica già tentata in passato, per esempio contro ebola e che si basa sull’utilizzo di anticorpi prelevati dal sistema immunitario dei pazienti sopravvissuti/guariti. Pazienti in qualche modo immunizzati nei confronti del virus. È di appena qualche giorno fa, per esempio, la notizia che una nota azienda farmaceutica ha avviato lo sviluppo di terapie simile, plasma-derivata. Diverse quelle anche in fase di sperimentazione, come riportato nel database di studi clinici cinesi.
“Quella della sieroprofilassi è una pratica antica, ma non esente affatto da effetti collaterali dovuti alle difficoltà di purificazione e complicata anche dal problema relativo alla produzione di plasma”, commenta Rezza: “Meglio sarebbe invece investire nella produzione di anticorpi monoclonali, prodotti sinteticamente”. In maniera analoga a quanto fatto con ebola e come alcune aziende biotech stanno già facendo. Nell’idea di fornire una risposta immunitaria già pronta nei confronti dell’infezione, che protegga dal virus. Anche se ancora non è del tutto chiaro quanto un paziente che abbia contratto e superato l’infezione da nuovo coronavirus sia protetto da possibili reinfezioni: “Non abbiamo visto moti casi di reinfezioni e non è chiarissimo se si tratti di questo o di recidive – conclude Rezza – è molto probabile che l’infezioni porti a un’immunizzazione, ma non è esclusa una reinfezione”.
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