La Marvel sperimenta il “Cinacomic” per sfondare in Asia ma annoia in Occidente
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Non che non ci siano i legami con universo cinematografico Marvel, sia chiaro. Ci sono. Però in Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli, che nelle nostre sale arriverà il primo settembre, per una volta suonano un po’ pretestuosi e aggiunti all’ultimo minuto. Nonostante sia parte della fase 4 della Marvel, questo è un film abbastanza a sé stante che tutta una serie di microindizi, personaggi minori e comparsate cercano di coinvolgere nel grande piano, ma non è qualcosa di profondamente integrato. Come se fosse un albo minore (come lo era la serie a fumetti), una storia ai margini del mondo, in una Terra che gli eroi frequentano poco, la Cina, e da un certo punto in poi in un mondo mitologico che poi non è che sia così lontano dall’idea di Wakanda: un luogo avanzato che in pochi conoscono e che da tempo immemore lotta per la stabilità del mondo. Perché alla fine nei film Marvel gli artefatti, l’attrezzatura e la tecnologia sono quello che conta più di tutto, sono il linguaggio attraverso il quale i personaggi si parlano e alla fine anche la scusa perché le storie possano esistere.
Thor è il suo martello (quando lo cambia questo segna un cambio in lui) e Captain America il suo scudo anche più che nei fumetti (tanto che in Endgame il passaggio di queste attrezzature segna il passaggio di grado), l’Uomo Ragno ha un costume tecnologico che racconta il suo legame con Tony Stark, nella serie Loki i device per la gestione del tempo conferiscono potere e il possesso delle gemme dell’infinito (con tutto quello che possono fare). In Shang-Chi, come dice il titolo, i dieci anelli sono l’oggetto (magico stavolta) che cambia le sorti dei personaggi, le loro vite e che causa tutti i problemi. I dieci anelli sono la maniera in cui un padre e un figlio vedono il proprio rapporto infrangersi e ricomporsi. Infine è il ritorno all’uso dei dieci anelli che racconta il dolore di un uomo per la perdita della moglie.
Tutto inizia a San Francisco e inizia come in un gran bel film di arti marziali. Già nei primi trailer si è visto come l’azione ravvicinata del film sia di livello asiatico, cioè molto tecnica, velocissima e coreografata con un’audacia sconosciuta in America. Non c’è da stupirsi, dietro ci sono alcuni membri del team di Jackie Chan, cioè i massimi esperti. Ma è solo la prima parte, quando Shang-Chi vive senza che nessuno sappia di cosa è capace, nemmeno la sua amica interpretata da Awkwafina (sempre di più il volto e l’attrice da tenere d’occhio, qui regge tutta la baracca senza avere poteri). Solo l’arrivo della squadra di cattivi a minacciarli scatenerà il tutto e li porterà dall’altra parte del mondo, cioè a Macao, dove c’è una sorella con cui allearsi contro il padre e la trama propriamente detta può iniziare.
È quindi una storia di personaggi che in America sprecano il loro potenziale, incompresi, e che invece di rientro nel loro paese d’origine possono essere davvero gli eroi che sono nati per essere. Ci sarà addirittura una gran tirata sul fatto di non usare nomi americani ma adottare quelli veri cinesi. È la Marvel (cioè la Disney) che liscia il pelo al pubblico cinese e che gli dice: “C’è spazio anche per voi nel vostro universo, vogliamo che vi sentiate a casa”, insomma la realizzazione che ogni persona, a prescindere dal colore della pelle e a prescindere dalla nazionalità, costituisce un possibile target per il marketing. E proprio per rassicurare il pubblico cinese il film ha tutto un prologo in stile asiatico (ben fatto) e coinvolge in ruoli cruciali due volti giganteschi della storia cinematografica di Hong Kong: Tony Leung (In The Mood For Love, Infernal Affairs) e Michelle Yeoh (nessun bisogno di presentazione).
Shang-Chi dovrà affrontare il padre e l’eredità di un mondo che rischia il collasso sotto i colpi dei mostri più generici mai visti in un film Marvel. Esseri senza ragione d’essere, espressione di un male grossolano, che non hanno nemmeno motivazioni che non siano la mera distruzione. Potevano impegnarsi di più. È questo infatti un grande problema del film. Da quando smette di fare azione con arti marziali e comincia a farla nello stile grandioso della Marvel (colpi esagerati, gente che vola, palazzi distrutti…) Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli non riesce mai a creare interesse. Intendiamoci: ci prova, c’è anche un flashback che inframezza il film tutto smontato temporalmente per sembrare interessante, ma a mancare è proprio la tensione. Non c’è la tensione verso la sopravvivenza (“Riusciranno i nostri eroi…?”), non c’è la tensione verso il collasso del mondo (a rischiare è il mai sentito prima sottomondo di Ta Lo) e non c’è un cattivo carismatico. Non lo è il papà a cui manca tanto la moglie morta e non lo possono essere i mostri in CG che nemmeno parlano. A partire dalla seconda metà Shang-Chi e la leggenda dei dieci anelli nemmeno sembra più un film Marvel ma un generico film fantasy, per metà sottotitolato.
Alla Marvel sanno quello che fanno: se Shang-Chi non sembra molto un film Marvel è perché somiglia parecchio ai blockbuster che funzionano in Cina. Quel mercato è l’obiettivo vero del film, lì deve piacere, lì deve funzionare e quel tipo di pubblico deve compiacere, con i suoi discorsi sulle eredità familiare, il rispetto delle tradizioni e alcune scene di arti marziali danzate che (va detto) sono sopra gli standard americani soliti. A noi però fa un po’ noia questo polpettone lunghissimo in cui tutto avviene senza coinvolgimento, in cui il protagonista Simu Liu si danna tantissimo nell’azione ma è stolido nella recitazione e in cui la sola Awkwafina sembra battersi come un leone perché il film sia divertente.
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