Erano gli anni Ottanta. Lui aveva alle spalle l’evasione dal carcere di Pretoria (grazie a Papillon e a un mazzo di chiavi in legno costruito lì in cella). Ha ideato il sistema di messaggi criptati che ha permesso al leader anti-apartheid di comunicare con i combattenti in clandestinità. Dialogo con un genio, presto sul grande schermo
Tim Jenkin (foto fornita da Tim Jenkin, LockCon Conference, Toool)
Escape from Pretoria è una delle uscite cinematografiche del 2020 da tenere d’occhio. Tratto dall’omonimo libro scritto da Tim Jenkin, racconta la sua incredibile fuga dal carcere di Pretoria, in Sudafrica, durante l’apartheid. A interpretare Jenkin è Daniel Radcliffe e il film, la cui uscita è al momento prevista per il 6 marzo 2020, è diretto da Francis Annan.
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Ancora oggi Jenkin è una persona gentile e pacata, per certi versi molto nerd. Caratteristiche che in gioventù si accompagnavano a un aspetto simile a Woody Allen. Un’immagine apparentemente molto lontana dallo stereotipo dell’agente segreto. Invece, non appena inizia a parlare, si percepisce subito quell’animo ribelle che l’ha portato a organizzare una rete sotterranea di attivisti unica al mondo.
Il loro nemico: il regime dell’apartheid sudafricano. Un regime così radicato che, quando Nelson Mandela viene liberato, per un bel po’ Jenkin resta incredulo e sospettoso. Ma è uno dei momenti più intensi che ricorda.
La storia di Tim Jenkin, attivista anti-apartheid, inizia nella Londra dei primi anni Settanta, durante l’università. Dopo la laurea in Sociologia torna in Sudafrica, determinato a opporsi al regime. Sviluppa quindi uno spettacolare sistema di distribuzione dei volantini, diffondendoli come fossero coriandoli tra la folla. Ci riesce usando delle microcariche esplosive.
La cosa, evidentemente, non passa inosservata. Viene arrestato e condannato a 12 anni di carcere, alla stregua di un terrorista. Troppo per non pensare a una fuga, le cui dinamiche sono al centro del film, per cui evitiamo spoiler. Oltre che nel libro, sono descritte anche in un documentario di National Geographic. Possiamo, giusto anticipare che c’entrano delle chiavi di legno e una concatenazione di eventi da cardiopalmo.
Se la fuga dal carcere è, appunto, da film, il resto della vita di Tim Jenkin non è da meno. Una volta scappato, infatti, non si ferma. Negli anni Ottanta crea un sistema di comunicazione semi-digitale che consente agli attivisti (Nelson Mandela compreso) di scambiarsi messaggi crittografati. Tutto ciò sarà alla base dell’operazione segreta che riporterà i leader anti-apartheid in Sudafrica. In tempi più recenti, Jenkin ha co-fondato il Community Exchange System. Si tratta di una rete di scambi commerciali che funziona come una sorta di banca del tempo via web, senza l’uso di valuta ordinaria.
A Wired, Tim Jenkin ha raccontato un bel po’ di cose. Tra passato, presente e futuro (cinematografico).
Tim Jenkins nel suo travestimento per la fuga (foto fornita da Tim Jenkins)
Da bambino, in Sudafrica non percepiva l’apartheid come qualcosa di brutto, forse perché faceva parte della normalità: che cosa le ha fatto cambiare idea?
“Ho aperto gli occhi quando sono andato nel Regno Unito. Fino ad allora ero completamente ignorante sul mio Paese. Per la prima volta, cominciai a leggere, guardare film e documentari. All’inizio pensavo fossero propaganda: mi sembrava incredibile non aver mai colto nulla di simile. Poi, mi sono molto arrabbiato per le bugie che mi avevano raccontato per tutto quel tempo. Certo all’epoca era più facile controllare e ingannare la gente, non c’era Internet. E credo che il Sudafrica sia stato una delle ultime nazioni al mondo ad avere accesso alla televisione. Ma anche con il suo arrivo, nel 1976, la gente non poteva vedere niente di quanto stava accadendo. Per 20 anni, avevo vissuto in una grande menzogna. All’università realizzai di dover fare qualcosa. Mi iscrissi al National African Congress (Anc), per capire meglio la situazione e cercare di cambiare le cose una volta tornato in Sudafrica. Iniziai così la mia attività clandestina”.
Come le è venuta in mente l’idea delle bombe di volantini?
“All’Anc ci mostrarono alcune tecniche usate in passato. Non tutte erano buone. C’era, per esempio, quella che chiamavano bucket bomb: consisteva nel mettere un piccolo esplosivo in un secchio, però era davvero inefficace. Migliorammo l’idea e la rendemmo molto più sicura: come dei petardi, i volantini venivano dispersi in aria. Rimpicciolimmo anche il dispositivo, in modo da nasconderlo nelle buste della spesa o nei cestini della spazzatura. Infine, aggiungemmo un timer, per potercene andare indisturbati. Oggi sembra una follia, ma all’epoca sarebbe stato pericoloso distribuire fogli politici in mezzo alla strada. Li lanciavamo anche dai tetti degli edifici. Non solo: avevamo dei marchingegni che, con dei petardi, facevano svolgere gli striscioni dall’alto dei palazzi. Insomma, era tutto piuttosto spettacolare: la gente vedeva i volantini cadere dal cielo e, alzando lo sguardo, poteva leggere puro lo striscione”.
E poi arrivò l’arresto, con la condanna a 12 anni di reclusione.
“Prima, io e i miei due compagni fummo arrestati e interrogati per circa un mese. Poi, il carcere, in attesa del processo, che di solito cominciava dopo un paio di giorni, ma eravamo prigionieri politici e potevano tenerci quanto volevano, sotto la cosiddetta Legge per la Sicurezza. Che non prevedeva nemmeno la cauzione. Però, in quella condizione ci era permesso ricevere visite, farci portare vestiti puliti… Riuscì, quindi, a introdurre di nascosto un sacco di roba, soprattutto soldi. Iniziammo, comunque, a pianificare una fuga ben prima del processo”.
Tim Jenkin, Stephen Lee e Alex Moumbaris (foto fornita da Tim Jenkin)
Tra le varie cose che vi portarono, anche un libro che per voi fu fondamentale.
“Certo, Papillon. Era del padre del compagno Stephen Lee. Quel testo ci ha aperto gli occhi, è stato una sorta di manuale di fuga, ci ha dato un sacco di idee, sia a livello pratico che filosofico”.
Invece i soldi, a che cosa vi servivano?
“Considera che uscire dalla prigione è una cosa, fuggire un’altra. Ed è lì che il denaro è di grande aiuto. Una volta arrivata la condanna, fummo trasferiti dal carcere di Città del Capo a quello di Pretoria. Riuscimmo a nascondere i soldi dentro al nostro corpo. Sin dal primo giorno eravamo determinati a trovare un modo di scappare. Oltre alla mentalità giusta, devi avere una certa manualità: iniziai a fabbricare le chiavi di legno, dopo solo una o due settimane”.
Che però non facevano parte del piano originale, giusto?
“All’inizio non prevedevamo quella soluzione, ma in effetti potevamo stare in carpenteria ogni giorno. E lavorare il legno. In ogni cella c’erano due porte: quella interna e quella esterna. Per la seconda, fabbricai un meccanismo per riuscire ad aprirla anche dall’interno. Il tipo di legno che avevamo scelto di utilizzare era parecchio solido, la geometria delle chiavi piuttosto complessa. Per capire la distanza dei vari elementi che le costituivano mi sono aiutato inserendo dei pezzi di carta nella serratura e misurando i segni lasciati sugli stessi. Mi è bastato considerare solo metà della forma, perché l’altra era simmetrica. Se usi il cervello e un po’ di matematica, non è così difficile”.
Una delle chiavi riprodotte da Jenink (foto fornita da Tim Jenkin)
Da come ne parla, sembra che si sia un po’ divertito. O no?
“Sì, è stato divertente. E anche una bella sfida cercare di superare tutte le barriere. Per esempio: il meccanismo di apertura delle porte esterne delle celle ci ha dato parecchio filo da torcere: ci sono voluti due mesi di tentativi. Certo, di tempo ne avevamo… Ci ha aiutato la duttilità del materiale: quando la forma non era esatta, potevo sempre osservare le tracce del metallo sul legno”.
Come era il rapporto con i secondini?
“Buono. Avevamo una sorta di accordo: noi non davamo problemi a loro e loro non ne davano a noi. Nonostante li considerassimo dei nemici, li rispettavamo, e viceversa”.
È interessante notare come la mentalità da code-cracking le sia rimasta. Una volta, a Londra, ha assemblato un computer rudimentale per creare un sistema di codifica dei messaggi che l’African National Congress (Anc) poteva inviare agli agenti. Nelson Mandela incluso, mentre era ancora in prigione. Che cosa ha rappresentato e continua a rappresenta lui per lei?
“Era un eroe, una figura di grande ispirazione, la faccia pubblica degli sforzi del movimento anti-apartheid. In realtà, non ho saputo chi fosse finché non ho conosciuto l’attività dell’Anc. Nel momento in cui è stato scarcerato, abbiamo tutti pianto di gioia. All’inizio, molti di noi non credevano che potesse essere vero: temevamo che sotto sotto ci fosse qualche inganno, che l’avrebbero comunque confinato lontano, che non gli avessero consentito di parlare… Perfino quando hanno cominciato a togliere i divieti, continuavamo ad avere paura che ci avrebbero arrestati”.
Nelson Mandela nel 1994 (foto: © Louise Gubb/CORBIS SABA/Corbis via Getty Images)
Poi, è stato al centro dell’operazione Vula. Dalla fine degli anni Ottanta diversi attivisti anti-apartheid fuggiti all’estero sono tornati in Sudafrica per dare il colpo di grazia al regime…
“In un certo senso per me quell’operazione ha rappresentato l’opposto di quanto feci per fuggire: era come introdurmi in prigione dall’esterno. Ma l’obiettivo principale era riportare i nostri leader nuovamente in Sudafrica, perché era molto complicato comunicare con loro lontani: fino alla metà degli anni Ottanta non c’erano i computer. Una volta a disposizione, abbiamo imparato una crittografia adeguata. Era tutto piuttosto strano, comunque: delle segreterie telefoniche registravano su nastro i messaggi trasmessi da apparecchi pubblici; quegli stessi messaggi erano cifrati e costituiti da suoni, simili a quelli dei fax”.
Non siete mai stati beccati?
“No, non credo che il regime sia mai riuscito a decrittare il codice, perché era del tipo one-time pad system: aveva cioè un’unica chiave di cifratura mono-uso, il sistema teoricamente più sicuro. L’unico grande inconveniente: la chiave era lunga quanto il messaggio; quindi, immagina la mole di dati che bisognava mandare ogni volta per la decodifica dei testi complessi. In compenso, però, finalmente avevamo un sistema di comunicazione che poteva dirsi davvero sicuro. Nonostante le difficoltà, non ci hanno mai scoperto. Dal Sudafrica i messaggi arrivavano al quartier generale in Zambia e da lì a Londra e nel resto d’Europa”.
Cartelli pubblici durante l’apartheid in Sudafrica (anteprima della mostra “Mandela: The Official Exhibition” prevista a Londra dal 7 febbraio 2019 – crediti foto: Leon Neal/Getty Images)
Come funziona il Community Exchange System?
“Dopo il 1994, in Sudafrica, non è successo granché. Nel senso che la spinta di cambiamento iniziale è scemata in favore di una marcata politica neo-liberista. Noi, però, volevamo andare nell’altra direzione. Già da qualche anno esisteva il Lets, Local Exchange Trading System [un sistema di scambio di comunità non-profit, ndr]. Con la diffusione di internet, nel 2003 abbiamo provato a informatizzarlo ed è stato un successo. Così è nato il Community Exchange System, Ces. In un attimo si è diffuso in Nuova Zelanda, poi in Australia, Regno Unito, Stati Uniti, ecc… Il tutto è stato facilitato dai software creati, che hanno semplificato molto le transazioni. Il controllo dovrebbe rimanere alle comunità, nessuno a capo, zero banche o governi. Nella storia, chi controlla le transazioni comanda. I paesi determinano la valuta centrale. O usi quella o non commerci”.
Da tempo, però, stanno emergendo le criptovalute. Che idea si è fatto?
“Non so. Al momento Bitcoin, Eternity, Dash… sono ancora molto simili al classico denaro. C’è una quantità prefissata e non tutti hanno la capacità o la possibilità di creare questa valuta, seppur virtuale. In Ces, invece, non esistono valute, nemmeno il denaro. Ci sono dei crediti, ma non ci sono le quantità. Si tratta piuttosto di unità di misura. Se ti chiedessi quanti chilometri ci sono sulla Terra, sarebbe una domanda stupida. Certo, puoi calcolare la distanza tra due punti, ma non puoi determinarne la loro quantità nel mondo. Per misurare il valore delle nostre transazioni utilizziamo il metro delle valute nazionali, perché è comodo. Ma ciò non avviene a priori, prima del servizio reso o ricevuto. Non abbiamo nemmeno il problema legato agli interessi, o all’inflazione, perché la quantità non è mai troppa. Semplicemente, non c’è una quantità vera e propria. Tornando alla domanda, non penso che le criptovalute rappresentino il futuro. Ci dev’essere un controllo e comunque una conversione in valuta ordinaria. Poi, esiste un meccanismo di verifica, ogni operazione che fai è registrata: per me questo è pericoloso, noi andiamo nella direzione opposta”.
Qual è la sua posizione sulle nuove tecnologie di comunicazione che facilitano la libertà di parola? In termini di rischi per giornalisti e attivisti, il mondo è in una situazione migliore o peggiore rispetto a 40 anni fa?
“Internet ha cambiato molte cose. Ai nostri tempi dovevamo ingegnarci con inchiostri invisibili o nascondere i foglietti negli oggetti. Non erano solo sistemi rischiosi e complicati, ma anche lentissimi: sia per ricevere i messaggi sia per decifrarli e viceversa. Oggi non c’è paragone, ma è una battaglia costante, perché ogni nostro scambio è monitorato. Almeno, con l’operazione Vula, non c’erano i metadati in grado di identificarci. Adesso, che si tratti di computer quantistici o di sistemi di crittografia analogici, permangono delle incognite”.
Che cosa resta del pensiero di Mandela ora?
“La situazione in Sudafrica è molto triste. Non è più il Paese per cui ho lottato, sta andando a rotoli: manca l’energia, l’acqua… La compagnia aerea di bandiera è collassata, l’economia è in pessimo stato. Anche i servizi di sicurezza, come la polizia, sono inutili, e all’interno molti sono corrotti e coinvolti loro stessi nei crimini. Però, parecchie imprese private si stanno facendo carico della sicurezza pubblica, la gente si rimbocca le maniche, ci si sta orientando alla privatizzazione energetica… È difficile fidarsi del governo, ormai. E, in un certo senso, gli scambi alternativi sono un modo per affrontare la situazione, per evitare le conseguenze dell’inflazione. I soldi continuano a definire chi siamo e che cosa facciamo. Per me sono un’altra prigione e sto cercando di creare le chiavi per uscirne. Penso che il Community Exchange System sia un po’ come le chiavi di legno che ho fatto. Non sarà sofisticato o high-tech, ma funziona”.
Lavoratori sudafricani protestano per la possibile chiusura di un impianto dell’Arcellor Mittal vicino a Città del Capo (foto: BOSCH/AFP via Getty Images)
Il film è fedele alla sua storia, che ci ha appena raccontato?
“I fatti principali ci sono. Però, molti dettagli vengono rappresentati diversamente. Del resto, Escape from Pretoria mette in scena la fuga da un carcere, perciò appartiene a un genere ben preciso: sono stati aggiunti quegli elementi che la gente si aspetta di vedere”.
Il libro a cui la pellicola si ispira è del 1987: perché solo ora la versione cinematografica?
“In realtà ci abbiamo provato a lungo [lui, Stephen Lee e Alex Moumbaris, ndr]. Subito dopo la pubblicazione del testo, ci sono stati diversi produttori che avrebbero voluto portarlo sul grande schermo. Noi insistevamo perché fosse un lavoro politico, capace di mettere in discussione l’arroganza di uno Stato che si dichiarava invincibile: però, c’era ancora l’apartheid. In più, se un produttore investe tanti soldi, deve poi poter contare altrettanti culi seduti nelle sale. A un certo punto, il film stava per essere realizzato, ma siccome pretendevano ancora di tagliare tutti i contenuti politici, mi sono opposto”.
È stato presente alle riprese in Australia?
“Sì. Tra l’altro, faccio la comparsa in una scena nella stanza delle visite in prigione: sono seduto accanto a Daniel Radcliffe, che interpreta me; una guardia lo stuzzica dicendo che non viene a trovarlo mai nessuno; mentre io chiacchiero con una persona. Devo ammettere: è stato piuttosto strano”.
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