O a metà della quinta, al più tardi. Invece, alla lunga tradisce le ottime aspettative con cui era partita. Nel complesso resta una serie memorabile
Era il 2013 quando History lanciava la prima stagione di Vikings, scritta ed ideata da quello stesso Micheal Hisrt, che già aveva curato le sceneggiature non solo dei due film su Elizabeth di Shekar Kapur, ma anche di una serie come I Tudors.
Ambientata nella Scandinavia del IX secolo, fin dall’inizio la serie era stata caratterizzata da un forte realismo e da una cura pressoché maniacale nella rievocazione storica dello stile di vita, delle imprese e dei costumi del leggendario popolo norreno.
Costata 40 milioni di dollari, la prima stagione era stata accolta in modo molto positivo, generando un grande interesse, per l’essersi fortemente differenziata da altre serie di quel periodo, quali Il trono di spade, ed evitato di legarsi ad una dimensione eccessivamente melò, come era capitato ne I Borgia e soprattutto nella già citata I Tudors, che ad Hirst era costata molte critiche sul finale.
Sono passati sette anni da quel 2013, e per almeno quattro stagioni, Vikings ci ha regalato qualcosa di assolutamente unico, rendendo le imprese di Ragnar Lothbrok, uno straordinario viaggio dentro i secoli bui. Appassionante, con dialoghi mai banali, aveva dimostrato di poter sviluppare più linee narrative in modo assolutamente equilibrato. Se poi si escludono Gabriel Byrne e successivamente Jonathan Rhys Meyers (entrambi presenti per un tempo limitato), Vikings non ha mai neppure potuto contare su nomi di grande richiamo nel cast.
Nonostante ciò, è riuscita col tempo a contare su un pubblico sempre più ampio, stregato dalla capacità di Hirst di fare dei vari personaggi della serie, simboli di come affrontare l’esistenza.
Ma più di tutto, Vikings ha sempre evitato di commettere il più comune degli errori fatto in prodotti analoghi: avere come protagonisti uomini del nostro tempo, connessi ad una dimensione semiotica troppo vicina alla nostra.
Ragnar, Rollo, Torvi o Ivar, credono negli dei, in Odino e Freya, nelle forze della natura, aspirano al Valhalla, sono mossi dalla curiosità verso altri popoli e altri lidi, ma senza per questo rinunciare ad essere ciò che sono: dei razziatori, dei guerrieri vichinghi. Come tali, venerano la morte in battaglia, praticano il saccheggio ed il massacro, schiacciano i più deboli, credono nell’inganno e tradiscono ogni patto quando fa comodo.
Per quattro stagioni, il pubblico ha seguito Vikings e le imprese di Ragnar in Inghilterra, le sue lotte per il potere contro avversari di cui era occasionale alleato, e poi i tradimenti, le rappacificazioni, gli intrighi e i drammi personali. Grazie alla Lagertha di Katheryn Winnick (uno dei personaggi femminili del piccolo schermo più belli del decennio) si è anche arrivati a comprendere la condizione di grande emancipazione e la considerazione di cui godevano le donne norrene, contrapposta alla posizione di inferiorità a cui erano relegate nel mondo cristiano. Hirst ha sicuramente confermato il suo talento fino al 2017, poi ha commesso due errori fondamentali: non ha messo la parola fine in tempo e continuando, ha persino stravolto la serie in modo assolutamente incoerente.
Da metà della quarta stagione, il protagonista era diventato Ivar Senz’Ossa, che al netto della grande bravura di Alex Andersen, non è bastato andando avanti a reggere il peso dell’eredità di Ragnar, soprattutto perché Hirst ha deciso di rendere Vikings qualcosa di sempre meno connesso alla realtà storica, e sempre più sbilanciato sul versante spirituale e intimista.
Vikings si è poi eccessivamente votata in queste ultime stagioni, ad un’incomprensibile dimensione teocentrica, rendendo l’insieme pesante, sconnesso a ciò che vi era in passato, abitato da personaggi fragili e confusi.
Nulla a che vedere con il monaco Athelstan di George Blagden, i cui dubbi e mutamenti, lo hanno reso il personaggio più profondo di tutta la serie. A partire dalla quinta stagione, Hirst ha via via trattato figure storiche di grandissima importanza e potenzialità quali Erik il Rosso o Oleg di Kiev in modo superficiale e maldestro, ignorato Thorvald e Leif Erikson, detto addio frettolosamente a personaggi quali Lagertha e Rollo. Sorprendente anche il modo in cui è stato usato un attore di grandissimo livello come Jonathan Rhys Meyers. Il suo vescovo Ehmund, a tutt’oggi, rimane un personaggio sostanzialmente inutile, scritto malissimo, ennesima dimostrazione della mancanza di idee di Hirst, e di quell’amore per il melodramma, che già aveva rovinato il finale de I Tudors.
Il tema dell’esplorazione norrena, la grande occasione narrativa, il vero asso nella manica per dare un seguito sensato a Vikings, è stato sviluppato malissimo, in particolar modo la parte inerente al continente americano e l’incontro con i nativi, che fu ben più drammatico e sanguinoso di quanto mostrato fugacemente in queste ultime puntate. Incomprensibile poi, ridurre la colonizzazione della Groenlandia ad una sorta di remake de Il signore delle mosche.
Hirst otpando per una narrazione meno dinamica e spettacolare, ha mutato così profondamente l’anima di Vikings da renderla irriconoscibile.
Della saga sui vichinghi amavamo il realismo storico, le esplorazioni verso altri lidi, il confronto tra culture e punti di vista differenti, le battaglie e duelli tra personaggi affascinanti, mai lineari o caratterizzati da una banale divisione in buoni o cattivi.
In Vikings un tempo non esistevano né buoni né cattivi, ma uomini chiamati a condividere un mondo, in cui vigeva la legge del più forte o del più astuto.
Guardando a queste ultime tre stagioni, l’unica cosa che si può dire, è che la scelta più responsabile sarebbe stata forse chiudere alla fine della quinta, data l’assenza di idee ed ambizione.
Continuare rinunciando a compiere un ulteriore salto di qualità, ad osare, a raccontare ciò che furono i Vichinghi nel mondo, non è stato solo incredibilmente deludente, ma una grande occasione persa per mostrarci un pezzo di storia ai più sconosciuto e bellissimo.
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