Per la prima volta il clone di una scimmia, un macaco rhesus, si chiama ReTro, è nato sano ed è vissuto per oltre due anni, dopo che all’embrione è stata fornita una placenta sana. Il risultato, ottenuto in Cina, promette di rendere più efficace la clonazione dei primati, aprendo così la strada alla possibilità di ottenere riserve di cellule staminali per ottenere organi in miniatura (organoidi) con i quali studiare i meccanismi alla base dell’infertilità e di molte malattie che colpiscono gli esseri umani. Pubblicata sulla rivista Nature Communications, la ricerca è stata condotta dall’Accademia Cinese delle Scienze.
Il risultato è il frutto di un grandissimo numero di esperimenti, coordinati da Zhen Liu e Qiang Sun. Quest’ultimo nel 2018 aveva ottenuto i primi embrioni di scimmia portatori di malattie. Il primo autore della ricerca è Zhaodi Liao. Il nuovo metodo consiste nel perfezionare la tecnica del trasferimento nucleare che nel 1997 aveva portato all’annuncio della nascita della pecora Dolly, il primo clone di un mammifero. La tecnica consiste nel trasferire il nucleo di una cellula adulta, ossia la struttura della cellula che racchiude il Dna, all’interno di un ovocita privato del suo nucleo; in questo modo la cellula viene indotta a regredire fino a uno stadio molto primitivo e indifferenziato, al punto che se viene trasferita in utero è in grado di dare origine a un embrione.
Con questa tecnica, dai tempi della pecora Dolly sono stati ottenuti i cloni di molte specie di mammiferi. Tuttavia, nel caso delle scimmie, in particolare dei macachi rhesus, l’efficienza di questa tecnica è sempre stata molto bassa, al punto che finora in un solo caso un embrione era sopravvissuto alla nascita per poche ore.
Che lo sviluppo della placenta fosse il punto debole della clonazione dei primati è emerso quando i ricercatori dell’Accademia Cinese delle Scienze hanno confrontato le caratteristiche genetiche degli embrioni di scimmia a uno stadio primitivo di sviluppo (blastocisti) ottenuti con la fecondazione in vitro e quelli ottenuti per clonazione. Sono state identificate così delle anomalie nello sviluppo degli embrioni clonati, sia nella trasmissione dell’informazione genetica agli embrioni e alla placenta, sia nelle dimensioni della placenta. Per superare questi ostacoli, gli autori della ricerca hanno isolato il tessuto embrionale che dà origine all’individuo (chiamato massa cellulare interna) da quello che dà origine alla placenta (trofoblasto) e che non entra in gioco nella formazione dell’embrione; quindi hanno trasferito la massa cellulare interna del clone in un altro embrione, ottenuto con la tecnica della Icsi (che consiste nell’inserire un singolo spermatozoo in un ovocita maturo) e privato delle cellule che danno origine all’embrione. In questo modo il clone si è trovato ad avere una placenta sana. “Utilizzando questo approccio, abbiamo ottenuto la nascita di un clone sano di scimmia rhesus sopravvissuta per oltre due anni”, osservano i ricercatori. “Nonostante questo risultato riguardi un solo clone di scimmia, la nuova tecnica – aggiungono – potrebbe rivelarsi vincente per poter clonare i primati in futuro”.
Redi, ‘un risultato fondamentale’
Il primo clone di un macaco rhesus nato sano e vissuto per oltre due anni è una “tappa fondamentale” della medicina rigenerativa: lo ha detto all’ANSA il biologo dello sviluppo Carlo Alberto Redi, presidente del comitato etico della Fondazione Veronesi e membro dell’Accademia dei Lincei. Redi rileva inoltre l’importanza di “distinguere la tecnica dal prodotto della tecnica”, anche perché.”nessuno sulla Terra può ragionevolmente penare di utilizzare questa tecnica ai fini della clonazione umana”. La tecnica è invece “è importante perché permette di avere ricadute benefiche nell’uomo e per questo è anche eticamente rilevante”.
Il cloni di scimmia, osserva, sono un “modello importantissimo per la biologia e la medicina e, di conseguenza “utilizzare la tecnica e non proibirla, come purtroppo accade in Italia”, permetterebbe ricadute in molti ambiti scientifici: dalla comprensione dell’infertilità alla salvaguardia di animali in via di estinzione, alla comprensione di molte malattie mitocondriali.
“Mai finora – rileva Redi – sono stati raccolti tanti dati sul periodo dello sviluppo embrionale che precede l’impianto”. Basti pensare, prosegue, che “negli esseri umani oltre il 50% delle gravidanze naturali non avvengono a causa del mancato impianto dell’embrione in utero”.
Per la prima volta, quindi, “è stato dissezionato molecolarmente il preriodo pre-impianto” ed è stato adottato un punto di vista completamente nuovo. Si è compreso cioè che “non funzionano le strutture extra-embrionali”. Vale a dire, prosegue l’esperto, che “non si tratta solo di genetica, ma di epigenetica: la chiave non è più la sequenza dei mattoncini del Dna, ma quello che nel corso dello sviluppo embrionale viene scritto sopra i mattoncini” (ossia sostanze come gruppi metilici e acetilici) per regolare l’espressione dei geni nel tempo e nello spazio e ottenere, per esempio, cellule dell’osso piuttosto che del fegato. E’ come se i geni fossero note musicali, modulate da quel direttore d’orchestra che è l’ambiente nel senso più ampio del termine, da quello psico-fisico a quello psicologico.
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