Il programma Safe Paths è stato presentato tra le 319 proposte al ministero dell’Innovazione. Wired prova a ricostruire anche le idee non accettate
Contact tracing (Getty Images)
Trecentodiciannove proposte e solo dieci giorni per scegliere la migliore. È la sfida di cui si sono fatti carico i 74 esperti nominati dal ministro dell’Innovazione, Paola Pisano, e che ha portato all’identificazione del gruppo che dovrebbe progettare e sviluppare l’infrastruttura informatica che traccerà la rete di contagi da coronavirus in Italia.
Chi siano gli sviluppatori sulla griglia di partenza, Wired lo ha anticipato: la proposta più quotata è quella di Bending Spoons, leader del settore per lo sviluppo di app ludiche che tra i suoi soci annovera la holding dei tre figli minori di Silvio Berlusconi, la H14. Al suo fianco la rete di poliambulatori del Centro medico Santagostino, che sulla digitalizzazione in ambito sanitario ha costruito una storia di successo. Seconda nella lista delle preferenze – “riservista”, come descritta da diverse fonti – è invece la proposta formulata da un team internazionale di esperti e promossa dall’imprenditore ed ex parlamentare di Scelta Civica, Stefano Quintarelli.
Ma quali sono invece le proposte scartate? E su quali criteri si è fondata la scelta? Al momento nessun parametro è stato pubblicato. A queste domande Wired sta provando a dare una risposta, ricostruendo per esempio i progetti e le iniziative intraprese sia a livello regionale (Sardegna, Umbria, Lombardia e Toscana tra le altre) sia quelli presentati al ministero e, a quanto risulta, scartati. Tra gli esclusi figura anche una realtà prestigiosa come il Massachusetts Institute of Technology (Mit) che, raccolto il silenzio della commissione, è già al lavoro per portare il suo progetto, di cui ha parlato con Wired, in altri trenta Paesi.
La proposta
“Per me non è una gara, ma l’opportunità di dare un contributo al mio Paese nonostante la distanza e di assicurarmi che i miei genitori ricevano la migliore tutela possibile”. Dall’altro lato della webcam siede Francesco Benedetti, ricercatore del dipartimento di Ingegneria chimica del Mit e tra i coordinatori del progetto Safe Paths, che punta a sviluppare un’infrastruttura in grado di tracciare la diffusione del coronavirus tutelando il più possibile la privacy dei soggetti coinvolti. Benedetti ci tiene a ribadire che la loro proposta non si limita “a un’app”, ma piuttosto a “un set di piattaforme che garantiscono il pieno controllo da parte del paziente di quello che viene condiviso”, così che questo “sia consapevole delle informazioni che rilasciate, nonostante queste siano comunque anonime”.
Una soluzione granulare dunque, nella quale il passaggio dei dati avviene in più stadi e all’interno di una procedura che passa attraverso il personale medico. “A quanto ci risulta un’intervista sanitaria per il tracing del virus (dalla nozione del contatto a l’inserimento delle informazioni in un database, ndr) può arrivare fino a dieci ore, con gravi conseguenze sia sulla disponibilità del personale sanitario che sull’efficacia del contenimento del virus”, spiega Benedetti. Per questo “la nostra proposta, ma anche molte altre, sono orientate proprio ad agire in tal senso, riducendo i tempi di comunicazione del contagio e senza correre il rischio che le informazioni condivise siano ‘sporcate’, come nei casi di autosegnalazione proposti da altri”.
Ecco come funziona la proposta del Mit in pratica: installata l’app Privacy Kit e una volta accertato il contagio dal personale sanitario, il soggetto trasmette i dati raccolti al medico abilitato alla ricezione, che dev’essere già fornito del software per la ricezione.
I dati raccolti si basano sulla geolocalizzazione gps e sull’interazione bluetooth: la prima permette di registrare i luoghi in cui il dispositivo è passato mentre la seconda tiene traccia degli altri dispositivi, sui quali è installata la stessa app, che ha incrociato. Il pacchetto di informazioni contiene esclusivamente la lista di luoghi, contatti e tempo di esposizione (per i più tecnici: si parla di un file JSon) e non l’identità del soggetto risultato positivo al test. Tuttavia, la seconda verifica è quella che avviene proprio con il medico, con il quale sarà possibile condividere eventuali esigenze ed eventualmente chiedere la rimozione di alcune delle informazioni. “Partendo dal presupposto che l’abitazione sarà anche il luogo in cui il soggetto ha passato più tempo, è possibile che questo chieda al medico di rimuoverla dalla lista, così da non svelare la sua provenienza”, precisa lo sviluppatore.
Una volta pulita attraverso questo processo manuale, la lista viene trasmessa a un server e da lì diramata a tutti gli altri dispositivi, sui quali avviene la sincronizzazione e il controllo dei punti di contatto. “In questo modo solo il dispositivo di chi è stato esposto è in grado di autosegnalarsi la probabilità del contagio, perché ha identificato un contatto più o meno lungo in un dato luogo – chiarisce Benedetti – garantendo che questa informazione non venga conservata da altre parti”.
La soluzione, spiega il ricercatore, è altamente personalizzabile in base alle esigenze di ogni Paese. Una possibilità è per esempio quella di fare sì che il soggetto che riceve la segnalazione venga informato solo della probabilità di aver contratto il virus o del range di date in cui può essere avvenuta l’esposizione. Chiosa l’ideatore: “In questo modo, per esempio, siamo in grado di dare un’informazione utile ma sufficientemente vaga da non permettere neanche a chi riceve l’avviso di capire con certezza chi può averlo contagiato”.
In campo
Il progetto è coordinato dal professore associato e direttore del Mit Media Lab, Ramesh Raskar, che vanta nel suo curriculum prestigiose collaborazioni, cinquanta brevetti e una lunga esperienza nel mondo della medicina computazionale, e trova uno dei suoi punti di forza nella sua natura open source, che permette a chiunque ne abbia desiderio (su GitHub) di leggere il codice sorgente del software al fine di individuarne punti deboli o eventuali vulnerabilità sfruttabili da un attaccante informatico. Un altro vantaggio di questo approccio è che in nessun caso potranno essere acquisite le informazioni di un cittadino senza il suo esplicito consenso, così da scongiurare ogni abuso o localizzazioni per finalità non collegate all’emergenza sanitaria. Dopo la presentazione del progetto, il team non ha ricevuto, a quanto riferisce, una chiamata dal governo italiano per esporre la sua soluzione. Né ha più ricevuto aggiornamenti sull’avanzamento della scelta.
“Da un primo team di venti persone, oggi siamo circa cinquecento al lavoro su Safe Paths – spiega Benedetti, che è anche incaricato della distribuzione per l’Europa -, senza contare gli ottocento volontari che ci danno una mano su traduzione e localizzazione della lingua in modo da essere operativi nel minor tempo possibile in tutti i Paesi che hanno manifestato interesse nel progetto”.
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