Una mega multa mai vista prima: è quella che secondo il Washington Post potrebbe presto colpire Facebook per chiudere l’inchiesta sugli abusi in seguito allo scandalo di Cambridge Analytica, la società privata che in tempo di elezioni presidenziali americane ha avuto accesso e utilizzato impropriamente i dati di 87 milioni di persone. Facebook, secondo la Federal Trade Commission, si sarebbe dimostrata incapace di proteggere adeguatamente la privacy dei propri utenti, e l’accordo comprenderebbe, oltre alla multa, anche l’obbligo di rivedere le attuali policy con controlli periodici.
Tutti sull’elenco. La notizia della multa miliardaria ha rimesso al centro del discorso la gestione dei nostri dati da parte di Facebook, cioè cosa sanno realmente di noi a Menlo Park. Per scoprirlo in realtà basta poco. Facebook fornisce infatti agli utenti la possibilità di vederlo: è l’elenco tratti e interessi dove raccoglie i gusti di quasi tutti gli utenti attivi. Lo scopo è pubblicitario: conoscere ciò che piace alla gente è il punto di partenza per creare annunci pubblicitari su misura e più efficaci e per creare un “identikit” con le nostre preferenze e i tratti sociali, da rendere eventualmente disponibili alle aziende (e negli Usa, come è successo, anche ai partiti politici).
Leggendo quell’elenco si scopre cosa Facebook sa (o pensa) di noi: dai nostri gusti sessuali al grado di alfabetizzazione tecnologica (con l’indicazione dettagliata dei modelli di smartphone, tablet ecc. che usiamo per collegarci), dai posti dove siamo stati in viaggio ai gruppi sociali di cui facciamo parte. Ma la vera notizia è che in pochi sanno dell’esistenza di quest’elenco (per vedere il proprio basta cliccare qui).
A dirlo è uno studio recente del Pew Research (un organismo indipendente americano che conduce ricerche demografiche su problemi sociali, opinione pubblica ecc.) secondo cui dopo più di 10 anni di attività e nonostante scandali come Cambridge Analytica, la stragrande maggioranza degli utenti continua a non sapere che Facebook raccoglie questo tipo di informazioni. I ricercatori hanno intervistato quasi un migliaio di cittadini statunitensi, chiedendo loro se erano a conoscenza dell’elenco di “tratti e interessi”, che come avverte Facebook “influisce sulle inserzioni che vedi e controlla la tua esperienza con le inserzioni”. Ebbene, il 74% degli intervistati non sapeva dell’esistenza della lista. E il 51% ha dichiarato di non essere a proprio agio con il fatto che Facebook compila queste informazioni.
Perché è importante. Non è una questione da poco se si pensa che in molti paesi Facebook non si limita a tracciare i gusti del pubblico, ma ne monitora anche le preferenze politiche e “etniche”. Il social network, secondo il Pew, assegna una categoria politica a circa la metà dei suoi utenti (51%). Tra coloro ai quali viene assegnata, il 73% afferma che la categorizzazione politica è molto o piuttosto accurata. E non è tutto. Per alcuni utenti, Facebook prevede anche una categoria chiamata “affinità multiculturale“, che intenderebbe definire l’affinità di un iscritto con vari gruppi etnici e razziali, se non addirittura indicare la sua reale origine etnica.
Nel complesso, il 60% degli utenti a cui viene assegnata una categoria di affinità multiculturale afferma di avere un’affinità molto o piuttosto forte per il gruppo a cui è stato assegnato, mentre il 37% afferma che la loro affinità per quel gruppo non è particolarmente forte. Circa il 57% di coloro che sono assegnati a questa categoria affermano di considerarsi effettivamente membri del gruppo etnico a cui Facebook li ha assegnati.
Ma, come era facilmente prevedibile, una simile classificazione si presta come minimo all’equivoco e ha già generato diverse polemiche. Così, tra le pressioni del Congresso da una parte, e le indagini condotte da ProPublica (una redazione indipendente che senza fini di lucro che dichiara di occuparsi di “giornalismo investigativo con forza morale”) dall’altra, la scorsa estate Facebook ha firmato un accordo col quale si impegna a impedire che gli inserzionisti escludano gli utenti sulla base “della razza, dalla religione, dall’orientamento sessuale” e di eventuale appartenenza a “classi protette”.