Da serie recenti come My Holo Love a Picard passando per film come Blade Runner 2049, la figura dell’ologramma è diventata il pretesto per una riflessione sull’identità, uno degli argomenti più affascinanti della narrativa fantascientifica
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È recente la notizia dell’incontro tra una madre che ha perso la figlia con una sua ricostruzione olografica interattiva. Nonostante la bimba fosse solo la riproduzione virtuale basata su foto e video dell’originale, la donna ha ammesso che quest’ultimo incontro ha aiutato moltissimo il processo di elaborazione del lutto. L’esperimento coreano provoca, oltre allo stupore verso le meraviglie tecnologiche, anche riflessioni sulle implicazioni etiche, di quelle che accompagnano l’evoluzione postumana, tra intelligenze artificiali sempre più avanzate, innesti cibernetici sull’uomo e così via. Recentemente Netflix ha diffuso la sua ultima serie originale – anch’essa di produzione coreana – incentrata su un personaggio olografico: Holo è, infatti, il prototipo di una AI progettato per essere l’assistente personale virtuale di futuri clienti (in pratica, una sorta di Alexa tridimensionale). Holo è la versione digitale del suo creatore, il recluso ex hacker Nando che ha trasformato l’amico immaginario della sua infanzia in un compagno in codice binario il quale – tra un upgrade e l’altro – si è evoluto tanto da sviluppare una personalità indipendente e diventare autocosciente.
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Nella narrativa fantascientifica cinematografica, letteraria e televisiva si può fare una distinzione tra vari tipi di ologramma i quali appartengono abbastanza verosimilmente alle categorie che potremmo incontrare in un futuro prossimo (o che esistono già). Un ologramma può essere semplicemente la proiezione di un individuo con cui si comunica con un device portatile (in pratica il futuro delle videochiamate) come abbiamo visto in decine di pellicole cinematografiche ma che è già una realtà alla portata di mano. Un ologramma può essere il ricordo virtuale di una persona scomparsa – presa da un video e restituita nella tridimensionalità di una versione in miniatura – come si vede spesso per esempio, in Star Trek: The Next Generation con i “santini” di Tasha Yar.
Come nel caso della bimba coreana, un ologramma può essere la ricostruzione di un persona amata basata sui feed dei social, su telefonate, video e altre registrazioni che insieme contribuiscono alla creazione di una copia virtuale passabile per l’originale. È quello che accade al personaggio di Zoe Graystone nello spinoff di Battlestar Galactica, Caprica, nel quale la coscienza di una teenager si ricostruisce sfruttando i dati reperibili nella rete e permettendole l’immortalità virtuale. È una prerogativa propria del genere letterario prima e cinematografico/televisivo poi (di cui lo scrittore William Gibson è il più noto esponente) denominato cyberpunk la disamina di scenari che esplorano le possibili evoluzioni postumane, incluso l’abbandono del fragile corpo fisico a favore di un’esistenza virtuale potenzialmente immortale – basti pensare a classici come Il tagliaerbe – in opposizione a un prolungamento della vita basata sulla cibernetica.
Infine, esistono gli ologrammi intesi come proiezione virtuale di un’intelligenza artificiale e questi, specialmente nei film e nelle serie di hard scifi, sono quasi sempre senzienti. È il caso di miriadi di produzioni sia del grande sia del piccolo schermo che negli ultimi decenni hanno offerto varie prospettive più o meno realizzabili nella realtà futura. Esempi sono l’algida Regina rossa della saga cinematografica (e videoludica) di Resident Evil, il Roy Eris di Nightflyers, il menzionato Holo del k-drama di Netflix e soprattutto gli ologrammi di Star Trek. Il franchise creato negli anni ’60 da Gene Roddenberry è stato pioniere dell’argomento: dalle prime puntate di The Next Generation che mostravano il ponte ologrammi come un mero luogo di svago e dove gli ologrammi erano semplici proiezioni di personaggi con cui interagire nel gioco, a versioni tridimensionali di personaggi letterari come quel Moriarty dei romanzi sherlockiani di Sir Arthur Conan Doyle tanto intelligente anche nella sua versione virtuale da diventare autocosciente.
In Star Trek: Voyager gli ologrammi fanno un ulteriore passo avanti evolutivo con il Dottore virtuale di bordo, una proiezione d’emergenza che – in mancanza di un medico in carne e ossa – diventa la figura di riferimento principale per i problemi di salute dell’equipaggio. L’essere costantemente online permetterà al Dottore di sviluppare una propria personalità (piuttosto irascibile e scorbutica invero) e guadagnarsi il riconoscimento di essere senziente, e quindi con un’identità con diritti civili. In Picard, il più recente spinoff di Star Trek, l’astronave pilotata dal ribelle Rios è popolata da sue versioni olografiche virtuali: quella gentile ed educata (e con accento inglese) dell’Hospitality Hologram che accoglie i nuovi arrivati, quella più passionale e selvaggia che presiede ai sistemi di difesa del vascello. Ognuna di queste presenta una personalità propria più che un’esasperazione delle peculiarità del carattere dell’originale, sono vere e proprie identità indipendenti.
Tornando a My Holo Love, la serie coreana è un romance incentrato sull’AI e il suo rapporto sentimentale con la sua solitaria proprietaria, ma offre anche una molto più interessante linea narrativa dedicata allo statuto civile di Holo. Nella serie, questa è la prima AI a superare il Test di Turing; essendo un prototipo, è ancora in fase beta testing mentre il suo creatore va a caccia di investimenti per finanziare il suo progetto. Come nel caso della dolce Joi di Blade Runner 2049 – l’ologramma innamorato del replicante K – anche Holo non ha diritti civili: è una proprietà con un marchio di fabbrica e quella “fabbrica” ha il completo controllo sulla sua vita. In My Holo Love si discute spesso sulla possibilità di resettare la memoria di Holo, virtualmente uccidendolo, per aggirare dei bug che ne limiterebbero il potere di vendita, mentre per Joi, che è un prodotto commercializzato da tempo, non c’è neanche un margine di dubbio sul fatto che sia “sacrificabile”.
Ci avviciniamo a una fase prospettata dalla tecnologia in cui, come aveva predetto Karel Capek (lo scrittore che ha coniato il termine robot come analogo di schiavo), in cui l’uomo sarà in grado di creare artificialmente essere senzienti e dovrà decidere se concedere loro i diritti appannaggio degli uomini. Una buona idea sarebbe prendere spunto dai più grandi precursori della storia, autori di fantascienza come – giusto per citarne uno – il Philip K Dick di Ubik, dei Simulacri e di Cacciatore di androidi.
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