Proprio sul finire del decennio, arriva un gioco di ruolo indie, sviluppato in Estonia, che insegna al mondo come dovrebbe svilupparsi una storia, e relativi dialoghi, in un videogame. Nei panni di un detective alcolizzato, che soffre di amnesia, il giocatore deve risolvere un intricato caso. Ma niente pistole o cazzotti: solo basandosi sull’attenta osservazione e, soprattutto, sullo sviluppo delle conversazioni coi personaggi non giocanti. Proprio lo spessore di questi ultimi, unito alla narrativa ficcante e alla direzione artistica che richiama lo stile ad acquerello, ci hanno regalato un gioiello pronto a ridefinire il genere per gli anni a venire. Pochi avrebbero scommesso sul successo di questo titolo, una versione mobile della celebre serie Pokémon. Forse nessuno, avrebbe pensato addirittura a un successo epocale. È il gioco che, in assoluto, ci ha insegnato che il potere dei pixel può portarci a vagare per strade di città, e sentieri di montagna, alla ricerca disperata di qualche nuova creatura da catturare. Il tutto con un semplice ma efficace sistema di augmented reality. A oggi, è stato scaricato da più di un miliardo di utenti, generando oltre tre miliardi di fatturato. Quando la saga che ha reso ancora più leggendaria la già leggendaria Id Software sembrava aver detto tutto, ed era pronta al pensionamento e a discorsi sui bei tempi andati, ecco che Bethesda, che nel frattempo aveva acquisito la software house texana, decide di ribaltare le carte in tavola e sfornare questo capolavoro. Doom, il cui titolo è il segno di un nuovo corso della saga, è l’esempio di come un videogame storico andrebbe riproposto a un pubblico moderno: smontandolo pezzo per pezzo e ripensandolo in ogni suo aspetto. Il risultato è uno sparatutto in prima persona adrenalinico e dalla tecnica sopraffina. All’apparenza, il titolo di Psyonix è un buon gioco simil-sportivo dal grande successo. Ma a ben vedere, si tratta della sublimazione di ciò che rappresentano, oggi, gli esport: il senso di comunità degli appassionati, la cura di pochi ma calibrati dettagli, le soluzioni tecnologiche tutte votate alle prestazioni online, e modalità multiplayer varie e appassionanti. E poi quell’idea, che ti fa capire che mettere un pallone gigante in un’arena dove i giocatori guidano delle auto che la devono colpire, nel tentativo di fare gol, passa dall’essere ridicola all’essere geniale nello stesso tempo in cui il titolo ha piazzato più di 10 milioni di copie vendute. Il videogame di Eric Barone incarna lo spirito indie nudo e crudo, con tutti i suoi limiti e le sue potenzialità. Un titolo che ha richiesto più di cinque anni di sviluppo, sacrifici immani da parte di Barone (che ne ha realizzato ogni aspetto, dalla programmazione alla grafica), ma che alla fine è emerso dalle torbide acque di un mercato saturo, grazie alla sua idea di infilarci in una valle incantata dove vivere nella semplicità, facendo crescere e prosperare la nostra piccola fattoria. Relax allo stato puro, capolavoro assicurato: più di 3 milioni e mezzo di copie vendute. Se lo vedessimo per la prima volta, mai ci sogneremmo di pensarlo tra i dieci titoli che hanno segnato questo decennio videoludico. Ma dalla sua ci sono i numeri. E che numeri: sol nel 2018 ha incassato oltre 2,4 miliardi di dollari. Considerate che è un gioco gratuito, e che quindi guadagna vendendo accessori virtuali per abbellire livelli e personaggi, e capirete perché l’industria dei videogiochi gli deve così tanto. Poi, chiaro, è anche un bel titolo: trattasi di un battle-royale, cioè un gioco di azione in cui vince l’ultimo che rimane vivo. Grafica cartoon che depotenzia la violenza, adrenalina da vendere, grande supporto agli esport, e il successo è servito. Verrebbe difficile pensare di inserire addirittura il quinto capitolo di una saga come gioco che ha contraddistinto questo decennio, ma dal momento in cui si parla di Grand Theft Auto la scelta è obbligata. Non fosse che per i numeri, che mai come in questo caso hanno messo i videogame due spanne più avanti di Hollywood: 800 milioni di dollari incassati nelle prime 24 ore di lancio, 1 miliardo nei primi 3 giorni. A oggi, GTA V, questo open world ambientato in una moderna metropoli californiana di nome San Andreas, ha venduto più di 115 milioni di copie. Il segreto? Schiaffarti in faccia la realtà, da ogni punti di vista: la ricchezza e il lusso, come la povertà e il degrado, e nel mezzo la più spietata criminalità. Viene facile citare un capitolo della serie Zelda, in questa rassegna, perché si tratta di titoli dalla qualità difficilmente eguagliabile. Tuttavia, Breath of the Wild riesce nella magia di rappresentare addirittura il migliore di una serie che risale al 1986 e conta oltre venti episodi. Ed è curioso notare come Breath of the Wild peschi a piene mani proprio dal primissimo titolo, trasformandolo nel migliore open world della storia. Ogni angolo del suo mondo è esplorabile e interattivo, mostrando una cura che ha fatto sembrare tutti gli altri esponenti del genere dei novellini. I numeri, a volte, mentono, ma oltre 16 milioni di copie vendute no. Certo, la presenza del meraviglioso gioco di ruolo di CD Projekt RED è scontata, specie in queste settimane in cui ci possiamo gustare addirittura la serie TV prodotta da Netflix, ma va letta in due modi. La prima è quella che celebra il gioco che ha insegnato all’industria così un vero “open world”, cioè un titolo dove il giocatore si sente davvero libero di prendere qualsiasi scelta, con la sicurezza di vivere un’avventura ogni volta unica in questo denso e tenebroso mondo fantasy. La seconda, più “business”, ci fa capire come un team di sviluppo polacco, con le proprie forze, è riuscito a dare una bella lezione ai colossi americani e giapponesi. E per l’Italia che produce videogame è una lezione da studiare. Non si tratta solo del titolo che più di ogni altro ha rivoluzionato questo decennio, ma uno dei pochissimi ad aver stravolto l’intera industria fin dalle basi. Potete definirlo brutto da vedere, troppo semplice e perfino stupido, ma il titolo sviluppato in origine dallo svedese Markus Persson, che l’ha poi venduto a Microsoft per due miliardi e mezzo di dollari, ha dato vita a un nuovo modo di intendere il videogioco. Di base, Minecraft è un mondo da costruire ed esplorare, plasmandone ogni angolo con una serie di blocchetti. Un Lego in versione digitale che, come i famosi mattoncini svedesi, ha lasciato un segno indelebile nella storia dell’intrattenimento.