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18.01.2020 In Musica, Tecnologia

Dardust: “L’importante è sopravvivere senza perdere l’incanto”

Ha appena pubblicato il suo terzo album: S.A.D. Storm and Drugs, fatto di emozioni classiche e sintetiche. Incontro ravvicinato con il produttore che ha firmato Soldi di Mahmood e i brani di Elodie e Rancore per Sanremo 2020

Ci sono momenti che stimolano decisamente la produzione artistica di un musicista, e sono fondamentali per dare linfa e spunti. È stato così per Dardust, all’anagrafe Dario Faini, produttore e musicista originario di Ascoli Piceno. Negli ultimi tre anni e mezzo la sua vita ha subito cambiamenti forti a livello emotivo e umano, fortunatamente dall’altro lato, quello professionale, ha portato a casa successi piacevoli: per esempio, la vittoria del Festival di Sanremo con Soldi di Mahmood, che ha prodotto insieme a Charlie Charles, o ancora le collaborazioni con Jovanotti. Una serie di emozioni contrastanti che fanno da sfondo alla nascita, alla realizzazione e alla messa in opera di S.A.D. Storm and Drugs, terzo album appena uscito per Sony e chiusura di un cerchio, o meglio, di una trilogia iniziata nel 2014, che qui e qui avevamo già potuto ascoltare. Se mettessimo in fila le cose che gli sono accadute nell’ultimo periodo, avremmo un diagramma con un’impennata vorticosa nel 2019. Inoltre, al Festival di Sanremo 2020 ha lavorato ai brani di Elodie e Rancore. Il nuovo disco, uno dei più attesi, non poteva capitare che in questo momento.

Quando hai pensato di voler chiudere la trilogia musicale?

“Nel 2018, dopo Gran Finale tour. Da lì ho iniziato a scrivere a Londra, in un cottage, dove ci fu una delle tempeste di neve più incredibili di sempre. Tra le prima cose che ho scritto: il brano Sublime, ma a dir la verità quella settimana avevo cominciato a tracciare la mappa di tutto il disco”.

Nei tuoi tre album pubblicati hai unito altrettante città che ti hanno ispirato: Berlino, Reykjavík e Londra, ma non solo…

“Londra è stata la scintilla iniziale, però poi mi sono spostato a Edimburgo. Ho vissuto un anno bello tormentato e dovevo cercare di capire quali fossero i concetti per rappresentare una mappa a livello simbolico capace di guidare le mie sessioni di scrittura. Così ho pensato alla tempesta e a un vademecum per come uscirne fuori. Poi, a due alter ego in cui potermi identificare. Lo faceva anche Brian Eno durante le registrazioni di Outside (1995) di David Bowie, in cui assegnava dei ruoli ai musicisti. Da questo gioco dell’impersonificazione mi son venuti in mente due personaggi: il giovane Werther di Goethe, che è un esponente del movimento della Sturm und Drang, e poi Mark Renton di Trainspotting. Il primo non riesce a vivere il suo amore, è tormentato e finisce per ammazzarsi; mentre il secondo, simbolicamente, fugge con il bottino dopo una serie di esperienze estreme. E così ho realizzato che anche io avrei potuto scappare solo col meglio che quella tempesta mi avrebbe lasciato”.

E lo Sturm und Drang, dal quale poi deriva il titolo S.A.D. Storm and Drugs, che importanza ha avuto?

“A livello simbolico ho iniziato a tracciare questa mappa: c’era lo Sturm und Drang che è un sentimento del sublime fatto di paura ed estasi, quindi poi mi sono spostato a Edimburgo. Mi sembrava più interessante e particolare vivere quelle atmosfere a livello visivo e magico, oltre che ripercorrere alcuni luoghi del film”.

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In questo disco più che negli altri, emergono in maniera forte i contrasti. Come hai deciso di gestire i suoni e il tuo background musicale che è sia neoclassico sia elettronico?

“È avvenuto tutto in maniera molto spontanea: quando scrivevo al piano avevo già in mente dove sarebbe dovuto entrare prepotentemente il beat. Era proprio un’onda che si creava di traccia in traccia in maniera incosciente e libera. Ho scritto il disco interamente al piano, da solo, immaginandomi come sarebbe dovuta essere l’elettronica che poi ho aggiunto dopo. Era una sfida un po’ old school, come quando si dice che le canzoni devono reggersi in piedi da sole chitarra-voce e piano-voce. Ho usato questo approccio qui, perché i pezzi devono essere indipendenti, e questa era la sfida più grande”.

Negli altri dischi che cosa era successo?

“In 7 c’era stata la stessa sfida, mentre in Birth si partiva dai beat e si andava ad applicare il piano. Volevo tornare a questo tipo di approccio, e non a caso ho sperimentato e testato i pezzi al piano solo nell’ultimo tour di Lost in Space. Vedendo l’effetto dal vivo, ho capito che questa era la strada giusta. Da qui anche l’idea di far uscire prossimamente una versione minimal del disco solo piano appunto”.

Come hai gestito le parti vocali e come hai pensato di farle vivere in questi brani?

“In Prisma, per esempio c’è un campione della voce di Stefano Riva, compositore e produttore. Ha messo questo campione e ha fatto il beat; mentre in altri brani, come Storm and Drugs, c’è la voce di John Bernard che è scozzese ed è il mio insegnante di inglese con cui abbiamo scritto alcuni testi e ho usato la sua voce pitchandola come se fosse un bambino. Poi, in Sturm I c’è la mia voce dove rappo e voglio metaforicamente soffiare via la tempesta che stavo vivendo a casa. Mentre in Sturm II c’è sempre John Bernard che racconta di questo fantasma che si chiama Oberyn, che è un simbolo del passato e volevo tirare via dalla mia vita”.

Era stata un’annata difficile, immagino…

“Per un anno ho vissuto non riuscendo a controllare la situazione e il disco nasce proprio dalla grossa frustrazione di aver vissuto per la prima volta questa mancanza di controllo: quando una storia finisce, quando la tua casa di famiglia viene abbattuta da un terremoto, quando c’è una malattia di una persona cara… sono tutte cose di cui tu non ha il controllo. Ho dovuto affrontare una battaglia contro il passato e scacciarlo dalla porta per trovare una versione mia più matura. Il disco e gli arrangiamenti nascono da questa tempesta e da questo impeto, che vanno a finire nell’ultima traccia, che è Beautiful Solitude: a livello psicologico e musicale il mio punto di arrivo. In quel momento non la vivevo così, accade ora. È stato un anno difficile a livello personale e un anno molto bello per l’ambito artistico, e pure qui c’è il contrasto”.

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Quindi, la parte della scrittura è avvenuta interamente nel momento di maggiore difficoltà?

“Esattamente. Infatti, è stato l’album più faticoso: anche perché, rispetto a Birth e 7 che ho prodotto alla velocità della luce, qui ho curato i dettagli fino allo sfinimento”.

Prima parlavi di natura, che è parte integrante dello Sturm und Drang. È vista un po’ come il fato, mentre il genio, l’altra componente, sarebbe l’uomo che gestisce le avversità che non può controllare. Ti sei immedesimato in questi ruoli?

“È stato il trucco per riuscire nell’impresa. All’inizio non ho amato molto la copertina del disco, ma alla fine il gesto di sfondare questo muro, era perfetto per rappresentare tutto. Beautiful Solitude è l’essere solo contro queste problematiche. Nella vita avevo sempre utilizzato delle scorciatoie, prima o poi però ti presentano il conto, e l’importante è sopravvivere senza perdere l’incanto ed essere sopraffatti dal cinismo. La sfida è stata anche questa”.

È stato un disco curativo?

“Assolutamente sì, ogni volta che lo risuono e lo riascolto è vivido al massimo. Sento che è longevo e che l’imprinting emotivo persiste. È un successo per me, al di là di come andrà. La cosa paradossale è che, dopo che l’ho concluso, non ho più voluto scrivere altro”.

Poi, un anno fa, che cosa è successo?

“C’è stata la mia esposizione come producer in ambito pop, del tutto inaspettata e non cercata, ma che ha permesso ad alcuni di approcciarsi alla mia figura, che resta sempre dietro le quinte ma più in primo piano. Cosa che nella trap e nell’urban era già sdoganata, mentre nel pop non lo era ancora così tanto, al di là di altri come Takagi e Ketra che fanno un tipo diverso di percorso in forma di canzone, come potrebbe essere stata Soldi. Questo ha permesso a molti di scoprirmi e a me di lavorare con tanti artisti: un per tutti, Jovanotti”.

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La Storia Infinita e Labyrinth: come entrano nel tuo immaginario?

“La colonna sonora di Labyrinth è il mio primo vinile 33 giri, mentre la Storia Infinita (The Neverending Story) di Limhal è stato il mio primo 45 giri. Entrambi, poi, sono stati due film con due personaggi che mi hanno portato a scoprire la musica, perché attraverso Jarett ho conosciuto Bowie e la sua modalità espressiva, che è stata sempre quella di prendere cose sotterranee e portarle a un altro livello. L’altro ha aperto un varco verso la fantasia che da piccolo mi ha sconvolto”.

Nel brano Sublime c’è una volontaria citazione musicale di Born Slippy degli Underworld, che è anche il pezzo di una scena cult di Trainspotting.

“Negli anni ’90 sono entrato in una dimensione diversa con le mie esperienze personali e quella legata a un certo tipo di fruizione musicale è tornata adesso, riscoprendola. In tutta la scena elettronica di quel periodo ci sono artisti che mi hanno formato: dai Chemical Brothers agli Underworld fino ai Prodigy, Orbital. Ognuno fondamentale per dar vita alla dimensione rave che porto anche nel mio spettacolo”.

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In S.A.D. hai tenuto un filo conduttore con l’Islanda: che cosa ti ha lasciato questa isola nelle tue produzioni?

“In qualche modo in tutti i dischi c’è sempre un poco di Islanda. Quello che mi ha colpito, quando sono stato lì, è stato il senso di sublime che ti travolge. Questi paesaggi magnifici che fanno paura nella loro grandiosità: devi essere pronto a viverli. E traducendoli in emozioni sonore, già lì era presente questo contrasto di estasi e paura. Voglio sempre creare una sorta di timore, inquietudine e spavento contrapposto alla quiete nella dimensione live di Dardust”.

Tornando a Sturm I, come ti è venuta l’intuizione della voce del bambino che racconta?

“Da Raconte-moi une histoire degli M83, un brano contenuto in Hurry Up, Dreaming: mi piaceva l’idea di lui che cresce a la sua voce cambia. È come se fosse una favola, ma con dei passaggi provocatori, perché nomino tutti gli psicofarmaci, tutte le droghe, la storia finita, la malattia di mio padre, il terremoto che ha distrutto la casa e tutto quello che mi è accaduto. E poi, c’è un passaggio finale dove dico Turn the page che ho ripreso da The Streets: ho pensato potesse essere importante per me come svolta e cambio deciso nella mia vita”.

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Come gestisci le tue due anime artistiche così apparentemente differenti?

“Dipende, tanti suoni che ho scoperto in Dardust li ho rimessi in Soldi di Mahmood, in Nuova Era di  Jovanotti e in altre produzioni. Sto cercando di trovare un metodo per pianificare le mie identità scandendo dei rituali durante la settimana, in modo da alimentarli entrambi in maniera continua, ma non è affatto semplice”.

 

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